Film

VENERE NERA

Saartjie Bartman vive come una cosa di carne scura a cavallo tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, periodo in cui la scienza europea, imbaldanzita dal secolo dei lumi, si apre all’osservazione della natura con spirito enciclopedico. Mentre la società assiste in parallelo alla scoperta dell’esotico, culminante nell’esplosione degli spettacoli circensi di animali feroci, assimilando ben presto nella categoria del “selvaggio” sia gli uomini considerati inferiori che le bestie. In un periodo così propizio, il suo padrone, butterato dall’ avidità e dall’ alcool, lascia la lontana Città del Capo per sfruttare colei che ha assunto a suo tempo come domestica. Si apre così un percorso umiliante di sempre più sordida perdizione, che si snoda fra le fiere popolari inglesi e tedesche, poi nei salotti che contano, fino al doppio epilogo parigino. Che torna, con un atroce colpo di scena, laddove il film ha avuto inizio.

Elefantesca come tutti gli indigeni Khosan, con natiche rialzate ed abnormi, nonchè con genitali di tale particolarità da prendere il nome di “grembiule ottentotto”, Saartjie è un ammasso cupo sormontato da un viso incomparabile, da idolo assorto. La vediamo dapprima immobile, esposta e frugata tra i banchi silenziosamente attenti di un’accademia scientifica, mentre un professore algido la mostra e la spiega in tutta la sua remota nudità. Per poi assistere ad una analoga scena contrapposta, colorata , vociante e solo diversamente cannibalesca, mentre recita la parte dell’animale chiuso in gabbia, mimando aggressività e ottusità ferine , intanto che il padrone domatore aizza la stolida folla. Sadici palpeggiamenti compresi.

E tutto il percorso narrato si svolgerà tra dicotomie esteriori e psicologiche di questo tipo, scendendo sempre più in basso. Ossia aggiungendo allo stupore e all’eccitazione sessuale del popolo anche la morbosità erotica delle classi altolocate, contrappuntate dalla sterilità della scienza. In una società neppure sfiorata dal concetto di razzismo e appena inizialmente consapevole di quello di schiavitù. Perchè il tema della demolizione di un essere già privo di ogni valore fin dalla nascita si dipana tra alcune ambiguità che sono alla base dell’intuizione geniale del regista: finchè Sartjie ritiene di mostrare stancamente sè stessa in quanto attrice che interpreta un ruolo, il suo senso del pudore è lontano o assopito nell’alcool. Ma quando la medicina la vuole misurare come oggetto anche “lì”, lei si difende. Perchè allora è della sua vera identità e volontà che si tratta, senza nessun diaframma scenico a salvaguardarne lo spirito. La ribellione ha poi il suo culmine quando, nuda nel perizoma di perline, si rifiuta di mangiare di fronte a uomini che la descrivono e la disegnano in piedi, pollici, once e libbre, raccogliendo il cibo offerto nel tovagliolo, per appartarsi lontano. E non saranno le poche lacrime silenziose di una sola scena a svelarne il dolente asservimento, quanto quest’unico, infantile, pudicissimo sottrarsi, risiedendo la sua sola difesa in un’assenza agita o subita. Senza che i più civili e dotti ne comprendano lontanamente la ragione; ritenendo anzi di non doversela nemmeno chiedere visto che la minuziosa esplorazione a cui la sottopongono mira ad una unica dimostrazione : l’equivalenza fra boscimani e scimmie.

Forte di una storia vera e di un personaggio fisicamente struggente e umanamente indimenticabile, Kechiche fa centro senza contrapporre scolasticamente la barbarie della civiltà alla scontata accettazione indifesa dei reietti; bensì giocando tutta la pellicola sull’attenzione di quelli che guardano un oggetto che a sua volta sembra non vedere, interagendo esclusivamente mediante la rappresentazione spersonalizzata di se stesso. In fondo non così diversamente dalla danza del ventre del precedente Cous cous ( 2007 ) strumentale a colmare il ritardo dell’inaugurazione sofferta di un ristorante etnico. Con le stessa modalità estetiche di colori, suoni, luci, voci, riassunti in una fotografia sontuosa, che si avvale di una macchina da presa accosto ai corpi e ai visi , implacabile fin dentro le carni, in assenza di anime. Corroborata anche da un’ ambientazione studiatissima e da una scenografia sapiente, con particolare enfasi sui costumi dell’epoca, compresi gli abbigliamenti di lei, commoventemente goffa in borghese e di immaginosa ferinità pacchiana nella oscena calzamaglia degli spettacoli.

Peccato che il regista, profondamente sensibile all’elemento umano , e sempre perfettamente in grado di rappresentarlo nelle differenti variazioni delle sue peculiarità etniche, non sappia mettere un freno al piacere di inscenare la propria consapevole capacità, sintetizzando e accorciando. Chè l’eccesso di episodi contrapposti, via via approssimandosi la morte per successive abiezioni, rende troppo lungo un percorso già chiarito sin quasi dall’inizio, con il risultato di diluire l’indubbia tensione del film, potentemente ancorata ad una crudezza anche ginecologica.

Da consigliare comunque, magari con qualche cautela per gli animi più impressionabili; benchè il vero capolavoro di Kechiche – che riprende lo stesso tema del rapporto fra realtà e rappresentazione scenica – rimanga La schivata ( 2003 ) perfetto bianco e nero da banlieu multirazziale, in cui all’ombra di Marivaux amori adolescenti iniziano e finiscono, perchè altre prove di vita possano cominciare.

Alla fine, mentre scorrono i titoli di coda di un bel film ridondante e troppo lento, alcuni fotogrammi dell’agosto 2002 riprendono un’Africa che festeggia la restituzione delle spoglie di Saartjie, sparpagliate a pezzi nei vari musei d’Europa. Quasi che, a 187 anni dalla sua morte, la cattiva coscienza dell’occidente abbia voluto cercare una redentiva giustizia, quando a niente si può ormai porre rimedio, nemmeno ai rimorsi.

VENERE NERA di Abdel Kechiche , Francia Italia Belgio 2010, durata 166 minuti

Da rivedere : La donna scimmia di Marco Ferreri

Previous post

HABEMUS PAPAM

Next post

L'ALBERO

Marinella Doriguzzi Bozzo

Marinella Doriguzzi Bozzo