Film

IL GRINTA

Che cosa può aver spinto i fratelli Cohen – peraltro non nuovi al genere western – a riprendere un vecchio film del 1969, diretto da Henry Hathaway e che valse al protagonista John Wayne, ormai a fine corsa, l’unico Oscar della sua carriera? Magari la battuta del medesimo, al momento della premiazione, attesa per tutta una vita, che suonava all’incirca così:”Se avessi intuito che una pezza sull’occhio mi avrebbe fruttato una statuetta, avrei cominciato a girare bendato almeno 15 anni prima”.
Più probabilmente, il gusto di un omaggio sia all’amato Jeff Bridges che al suo e loro Grande Lebovsky : un modo per contrapporre icona ad icona, o per far scivolare nel Grinta monocolo una sorta di tramonto del Drugo.
Ancora più plausibilmente, per proporre e contrapporgli una eroina nascente, tratta sì dall’altrettanto datato libro di Charles Portis Un vero uomo per Mattie Ross, ma quanto mai attuale in un momento di riscoperta – anche se non ancora di tangibile riconoscimento – della centralità della donna.
Infine, e di questo siamo quasi certi, per il piacere di avvalersi di un genere che si è lasciato fare e rifare mille volte e in mille modi nel tempo, senza mai perdere la sua essenza di potente e sempre leggibile metafora della vita. Vita sfrondata da qualsiasi superflua sovrastruttura e che precisa innanzitutto il rapporto fra uomo e natura, facendo dell’uomo l’ospite e non il padrone. E che riduce all’osso la lunga o breve quotidianità dell’esistere in termini appunto di vita – morte, amico – nemico, amore – avidità, tradimento – vendetta, orgoglio – viltà, giovinezza – vecchiaia. In una partita sempre uguale e sempre infinitamente variata nelle sue possibili combinazioni, dinamizzata dagli eterni elementi dell’inseguimento e della fuga. E non a caso il film si apre con una citazione biblica:”I malvagi fuggono quando nessuno li insegue”.

La voce adulta narrante di lei ripercorre la vicenda ,che si chiude con la sua solitudine menomata alla ricerca di coloro che le furono accanto. All’interno della cornice, la storia di un esordio e di un congedo, a voler significare che la vita di ognuno è in realtà riassumibile in uno o pochi eventi che lo segnano e lo definiscono per sempre.
Mattie ha quattordici anni ,delle lunghe trecce, e una implacabile determinazione, unita ad un sapere che la riscatta da una naturale posizione subalterna. E la pone sullo stesso livello degli interlocutori maschi adulti. Il Grinta è un ubriacone ormai spompato che vive con noncuranza il declino, non si sa se per necessità o per scelta. Entrambi sono dotati di una micidiale dialettica che anima , anche umoristicamente, i dialoghi della pellicola. Lei assolda lui per cercare l’assassino del padre. Inizia così un percorso di formazione da un lato, e di guida e protezione dall’altro, non esente da ribaltamenti in corso d’opera, con il sopraggiungere di un secondo uomo che cerca la stessa persona. E che potrebbe essere l’amore arrivato troppo presto, e quindi mai esplicitamente riconosciuto. Intorno, la natura sterminata e indifferente, i rari incontri umani che sbucano improvvisi dalle quinte degli alberi ,e la tensione della caccia all’uomo, con i suoi risvolti drammatici e psicologi, fino alla catarsi, che è di fatto una separazione, come se , dopo, niente potesse avere più l’esaltante significato di quel momento.

A partire da circa la metà, il film, prima avvincente e dinamico sia nel tratteggiare i personaggi come nel portare avanti l’azione , sembra subire un rallentamento e ripiegarsi su se stesso , quasi che l’esaurimento della metafora anticipasse la cifra esistenziale dell’imminente, lungo addio. E la cesura fra i piani dell’azione e quelli dell’anima rendono un po’ meccanici gli avvenimenti e forse ridondante il sentimento. Che si riprende però in un finale di pietas quieta, secondo una mesta quanto orgogliosa accettazione .Riassumendosi benissimo nella frase di lei, matura e sola, perchè “non ha avuto tempo per altro”. In realtà, perchè ha vissuto un’ unica, brevissima e irripetibile stagione.

Opera intimista dunque, in cui l’accadere estrinseca il non detto, e che si avvale di una buona sceneggiatura, fedele nei contenuti al modello passato, ma rivisitata in chiave esistenziale. E che si può quindi leggere sia sul piano dell’avventura d’autore ,movimentata e anche frizzante, come su quello della riflessione malinconica. Con un’ottima protagonista al centro della scena, graziosa quel tanto da non mettere la sordina all’espressività, ben assecondata anche dalla fisicità degli uomini che le fanno da spalla, accuratamente rifiniti da un’attenta scelta di trucchi e soprattutto di costumi. Abile , come sempre , la regia, che riesce a fondere la cornice con il quadro, trattando gli avvenimenti entro un perimetro dato, sì che anche gli sconfinati paesaggi sembrano forniti di una delimitazione precisa, a sottolineare ancora una volta l’intimismo del tutto. A differenza di parecchi altri western, qui il senso della libertà e della conquista è dato dai caratteri e non dalle vicende e dall’ambientazione. Lei che osa con consapevolezza ingenua ,sfrondando le conseguenze in vista dell’obiettivo per volontà e inesperienza. Lui che accetta di scendere fino al punto in cui il riscatto dell’uomo che è stato prende il sopravvento , per riprecipitare in un finale circense quasi beffardo.Il terzo, un pressochè irriconoscibile Matt Damon ,che accetta con umiltà di fare da catalizzatore. Mentre gli altri maschi cattivi sono quelli classici, ma in qualche modo del tutto secondari. Magnifica la fotografia, di denso nitore, dai dettagli dei corpi e dei visi alla poetica contabilità di ogni ramoscello come di ogni fiocco di neve.
Si può anche mancare, che i fratelli Cohen hanno fatto di meglio, ma dimenticare, no.

IL GRINTA di Ethan e Joel Cohen, Usa 2010, durata 110 minuti

CONSIGLIATO, per analogia : UN GELIDO INVERNO, di Debra Granick, Usa 2010, durata 100 minuti.

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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