Film

UN GELIDO INVERNO

Oggi non ci sono più i riti di iniziazione sociale, durante i quali i consorzi umani di riferimento ammettevano i giovani alla vita adulta (quasi sempre maschi, che per le femmine si sa dove si andava a parare) conferendo loro pieni diritti e doveri. Era sopravvissuta forse l’esperienza del servizio militare; rimane un addomesticato esame di maturità ambosessi, con quel che ne consegue di positivo e negativo.

Non così in questo film, dolorosamente sperduto dalle parti del Missouri, in una boscaglia delimitata come una coperta sdrucita dall’uso. Che è l’invenzione migliore della pellicola. Una comunità sgangherata e abbrutita, che vive in baracche quasi a cielo aperto, a contatto con una natura più amorfa che ostile, eppure totalmente rinchiusa in se stessa. Ossia nei propri vincoli tribali, costituiti da loschi affarucci di droga, da regole tanto implicite quanto inesorabili, nonché da antiche faide complicate da oscuri legami di parentela.

Così, in un diroccamento di colori tra l’indaco e il bruno, prende avvio la storia della nostra diciassettenne, che già si trova sulle spalle una madre catatonica, due fratellini, un padre assente. E fin dalle prime inquadrature la vediamo spaccare la legna e stendere la biancheria, tirare di carabina agli scoiattoli per mettere qualche cosa sotto ai denti, sorvegliare i compiti dei bambini, consolare con il pettine i capelli di una genitrice perduta nel vuoto, con stoicismo e trattenuta tenerezza. Finché la civiltà burocratica non la raggiunge, sotto forma di un possibile pignoramento della casa e del terreno, qualora il padre latitante non si presenti al processo per cui ha versato in cauzione i miseri beni della famiglia.

La caccia al genitore diventa quindi il percorso di emergenza assoluta tra le già tante e crudeli precarietà, dando inizio alla Prova. Che si svolge con un andamento quasi noir, giudicato uno degli elementi cruciali del film, e che per noi viceversa ha un procedere un po’ teatrale, tipico delle vicende che si svolgono in luoghi chiusi, con i personaggi che entrano ed escono da un perimetro dato, rallentando in alcuni punti il ritmo del racconto. Che invece ha i suoi punti salienti nei giochi assorti e ripetitivi dei bambini, negli animali straniti quasi quanto gli umani, nelle regole che governano i rapporti tra maschi e femmine. Quest’ultime indipendenti almeno durante l’adolescenza ma poi consegnate ai compagni di vita a cui fanno da serve, fattrici, portavoce e guardiane. Ora allineandosi al potere ora scantonandone, per solidarietà femminile, con l’inganno, che è spesso l’arma tipica dei sopraffatti. Ma sempre e comunque risolvendo le situazioni.

Giocato su di un realismo con tratti quasi pulp, il film è in fondo una sorta di favola; o, per meglio dire, un apologo. Si veda il carattere della ragazza, dura e tenera, ostinata e sensibile, esplicita e reticente, orgogliosa, bella e invincibile al punto da rimanere quasi mitologicamente esente da qualsivoglia brama maschile. Nonché interpretata benissimo da Jennifer Lawrence, in fondo non così diversa da un’analoga giovane eroina che circola in contemporanea sugli schermi, ossia la Mattie de Il grinta (.Coincidenza o sospetto? Perché questa ventata di protagonismo femminile quasi taumaturgico potrebbe essere una quota rosa tributata all’adolescenza, da lasciar poi decadere quando le donne dovrebbero cominciare a contare, ossia da adulte. Per cui ci piacerebbe sapere cosa potrebbe accadere di Ree Dolly in un seguito che non ci sarà…

Forse, più semplicemente, la cultura capta in anticipo non solo le mode, ma speriamo anche le tendenze della società civile. Che comunque si ricorderà di questo film per l’intelligenza anche emotiva dell’ambientazione; l’invenzione di un personaggio; la commistione di sensibilità e di coraggio pragmatico; l’intonatissima fotografia di atmosfere, più offuscata che cupa; infine l’equilibrio fra l’urgenza della trama e la complementarità rifinita dei dettagli, che bilanciano magistralmente sia l’esplicito che il non detto, lasciando allo spettatore la possibilità di ulteriormente immaginare come di riflettere.
Tratto da un libro di Daniell Woodrell, questo lungometraggio ha già vinto il premio della giuria al Sundance Festival del 2010 (per cui ,attenzione, è stato tacciato di essere radical chic); il premio al miglior film e alla miglior attrice all’ultimo Torino Film Festival. Mezzo punto in più di incoraggiamento, per bieca partigianeria di genere e per legittimo difesa dall’ancor più nominato ma abominevole Cigno nero .

UN GELIDO INVERNO di Debra Granick, Usa 2010, durata 100 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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