Libri

UNA FORMA DI VITA

Quando si recensiscono i libri di Amélie Nothomb, ad ogni commento andrebbe premessa obbligatoriamente una frase di Madame de Sévigné: ”Perdonatemi, non ho tempo di essere breve”. Perchè la scrittrice è sempre minuziosa quanto concisa e di poche pagine, mentre poi tutte le sue snelle opere si allargano per cerchi concentrici, generando una massa inversamente proporzionale di risonanze.

Dopo l’algido-terroristico Il viaggio d’inverno del 2010, ecco arrivare puntuale nelle librerie Una forma di vita, uno dei suoi romanzi più intensi e, si dovrebbe aggiungere , originali, se originali non lo fossero praticamente tutti. Perchè lei è così, una sorta di border line di genio con il talento della scrittura. E , quando non la si apprezza, probabilmente vuol dire che non la si legge, o la si legge poco: ancora più probabilmente, ce ne si difende. Nothomb è infatti un po’ invasata e molto invasiva, pur essendo persona di vocazione certa, comprovato bon ton, valori di riferimento sicuri, certificati da un diuturno rapporto epistolare con i suoi lettori. Rapporto che dà l’avvio al romanzo in questione, sotto forma di una prima breve lettera da Baghdad.

Chi le scrive si qualifica come Melvin Mapple, trentanovenne di Baltimore, di stanza in Irak da parecchi anni. Sfuggito alla fame dei propri 55 chili per un metro e ottanta di statura – e le misure rivestono un’importanza fondamentale in questo racconto – arruolandosi nella tristemente famosa guerra di mala fede. E che esordisce dichiarando di soffrire come un cane, rivolgendosi ad Amélie perchè ha bisogno di parlare con uno scrittore, ossia ” un essere umano che sia al di fuori della mia storia e che nello stesso tempo mi sia vicino ”. Inizia così un affascinante scambio epistolare di agevolissima e intrigante lettura, in cui si seguono le riflessioni-reazioni dell’autrice al meraviglioso personaggio da lei stessa inventato, sulla scorta di un articolo uscito negli Usa nel 2009, che lamentava il diffondersi dell’obesità tra i soldati come condizione ostativa all’efficacia del combattere. E che lei, con profonda percezione sociologica, ribalta da par suo in un’invenzione tanto umana quanto inquietantemente assurda, fino alla mostruosità.

Davanti agli occhi del lettore prende forma l’urlo munchiano di un’anima sepolta in una massa di carne enorme, una specie di appena sbozzato prigione di Michelangelo che mangia parossisticamente, come molti suoi commilitoni, non per piacere, ma per trovare una sorta di atroce conforto alla scoperta dell’orrore e del terrore: “La droga, parliamone. Una guerra moderna non si riesce a sopportare senza l’uso di stupefacenti. In Vietnam i nostri avevano l’oppio che, qualunque cosa se ne dica, crea una dipendenza molto inferiore a quella che è ormai la mia…il grasso umano sta a Bush come il napalm a Johnson.”. Melvin non entra più nei tank, mangia per morire, con la sua stazza fa da scudo umano agli altri in combattimento. Il suo grasso è una ribellione autodistruttiva, un insulto per gli irakeni che crepano di fame, un furto legalizzato nei confronti dello stato per i commilitoni magri che disprezzano quelli come lui. E che non ingrassano perchè le loro malefatte non pesano sulle singole coscienze, mentre Melvin si deforma anche in quanto consapevole della propria colpevolezza. Ma di notte, nel buio della sua branda, sfiorando ormai i duecento chili, sa di essersi arricchito di un’altra persona: assegna al suo grasso un nome di donna, Sherazade, che compenetrata con il suo corpo ormai incapace d’amore, gli parla a lungo, trasformando le ore di veglia in un tempo da amanti felici. Tuttavia la consolazione è esclusivamente notturna. Melvin sa di incamminarsi verso la morte, si pone mille domande angosciose, scrive sempre più a lungo, dicendo ad Amélie: “se esisto almeno per lei, è come se vivessi altrove un’altra vita”. Finchè la scrittrice, partecipe, stupita, compassionevole ma anche ironica, gli propone di alleviare le sue sofferenze dandogli uno scopo: trasformare il proprio espandersi carnale verso il nulla in un’opera di body art ,creata anche contro la propria volontà, mutando l’obesità nella testimonianza del male dentro il suo corpo. Iscrivendosi così nella modernità artistica, ingorda sia del processo che del risultato. Parrebbe la svolta della salvezza: Melvin fa di se stesso il suo progetto d’autore , lo documenta quotidianamente, invia la foto da nudo come un enorme tumore ormai liberato…. e poi più nulla. Il silenzio. Con l’autrice emozionata, preoccupata, prostrata, fino al doppio coup de théatre che non sveleremo.

Singolarissima e bizzarra visionaria, che affonda la sua ispirazione nella realtà di tutti i giorni elevandola a chiave di lettura della modernità, Nothomb scrive con il bisturi secondo un incidere ed un incedere concatenato di epifanie, che nulla concedono alla preziosità letteraria, trasformando il suo sguardo acuto sul mondo e sull’animo umano in apologhi agghiaccianti di convincente verità. Ogni sua frase è una disvelazione alla portata di tutti, al tempo stesso singolare e rara. Avendo il dono di un punto di vista inconfondibile e di un’immaginazione che costeggia i margini dell’orrido; e però capace di assumere la forma di una proverbiale, dissennata saggezza. Sì che tutte le volte che la si affronta, viene da chiedersi come certe trame possano saltarle in mente, sicuri tuttavia di trovare nelle sue parole suggestioni e spiegazioni accoglibili come chiarimenti di emozioni e di pensieri abbozzati che ci si portava dentro, senza averne una vera consapevolezza. Un modo di porsi quasi maieutico, nutrito da una cultura bulimica e da un’originalità al confine del patologico, secondo un’ elaborazione cerebrale che affonda le sue radici nella poetica manierista inglese del diciassettesimo secolo; con frequenti puntate nell’illuminismo volterriano, non disdegnando alcune morbidezze preromantiche alla Rousseau. E che qui si incarnano in riflessioni sulla guerra, sul rapporto vita-morte-cibo, sull’arte, sullo scrivere. Nonchè, in particolare, sul corrispondere, illuminando di una luce inquietante anche le tante connessioni epistolari oggi così frequenti e frequentate su internet. Riuscendo nel contempo a dare al romanzo un andamento intriso di tensione e di attesa, che miracolosamente non depauperano mai le successive riletture dello stesso testo.

Insomma, un fenomeno, inteso etimologicamente come apparizione degna di stupore, osservazione , interesse. Che produce un libro all’anno, con puntualità matematica, senza cedimenti nè scadimenti. E che è inutile imbrigliare in formule di analisi decrittativa o decostruttiva, avendo il lettore una sola possibilità: quella dell’abbandono fiducioso. Quasi sempre, ma soprattutto in questo caso, ampiamente ricompensato.

UNA FORMA DI VITA di Amélie Nothomb, Voland 2011, 116 pagine, 14 euro.

CONSIGLIATI, da leggere o da rileggere, della stessa autrice:

Metafisica dei tubi, Stupore e tremori, Biografia della fame, Sabotaggio d’amore, Cosmetica del nemico, Le catilinarie.

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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