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TROPPO UMANA SPERANZA

Troppa umana speranza. Un bel titolo. A cui verrebbe da sostituire, delibate le 746 pagine, un controtitolo che potrebbe suonare come Troppo umana ambizione. Perchè il trentenne Alessandro Mari, che lavora nell’editoria, non ha saputo privarsi e privarci di nulla. Al romanzo di appendice, rivisitato secondo i destini incrociati che tanto vanno di moda oggi nel cinema, ha voluto aggiungere un linguaggio a suo modo sperimentale, improntato da un Manzoni che non ha ancora sciacquato i panni in Arno, fino ad un Salgari con dei difetti di esotismo immaginativo.
Ne risulta un prodotto diseguale che si aggira come la navetta di un ottovolante nella polpa dell’ipertrofico romanzesco, con degli alti e dei bassi la cui vertigine è però inficiata dall’appesantimento per eccesso di dettagli.

Siamo nel primo quarantennio del 1800 e ancora una volta la grande storia fa da sfondo, nell’ordine: a un ragazzetto di fede e di campagna, che di mestiere distribuisce letame benedetto e che per amore intraprende un lungo viaggio a piedi per andare a trovare il Papa ; una giovane reclusa, anche lei per amore, che in cambio della libertà accetta di fare la spia e si trova coinvolta negli affari londinesi di un certo Mazzini; un avventuriero nizzardo che, nel nuovo mondo, incontra Anita e sperimenta tecniche di guerriglia da importare nell’Italia risorgimentale; un milanesissimo pittore che intuisce le potenzialità della dagherrotipia con l’intento di arricchirsi mediante lo smercio di materiale pornografico dal vivo.

Seguono viaggi, avventure ,incroci, fatalità, descritti con la fantasia e l’abilità di un giocoliere che si è caricato di troppi ammennicoli da lanciare in aria. Ma non ha ancora la padronanza di un automatismo muscolare tale da consentirgli di tenerli sospesi tutti insieme nel medesimo tempo. Con grandi disomogeneità di interesse come di impatto linguistico. Si veda, per esempio, come le vicende del giovane contadino padano siano insaporite da una lingua sapientemente meticcia che si fa sostanza di luoghi, psicologie, atmosfere, usi e costumi. Perchè in qualche modo probabilmente nutrita dalla frequentazione diretta dell’ambiente. Mentre come le avventure di Garibaldi suonino faticosamente stereotipate, in quanto desunte da una documentazione libresca che diventa lontananza confusa e parola che non riesce ad appiattarsi e sorprendere, bensì solamente ad appiattirsi.

Ne risulta una sorta di smembramento del lettore, diviso fra complessità lessicali ed espressive talvolta così superflue da diventare narcisistica maniera , ma altrettanto spesso di una originalità personalissima di qualità pregevole. Nonchè lacerato dalla predilezione per i personaggi, in genere uno – a scelta – chè l’empatia non può mai essere equamente distribuita, e non si tifa per il drappello ma per il singolo. Con il rischio di non appassionarsi alle gesta degli altri. Gesta che ci si ritrova sempre comunque fra i piedi, essendo il libro diviso in tre soli onnivori capitoli, ma frammentato ogni due o tre pagine dalla rincorsa al riacchiappo di ogni singolo eroe . Che intanto ha fatto, sta facendo , farà. Con l’orgoglio altresì della ricostruzione anche tecnica di mestieri e saperi lontani, che spesso mal s’adatta ai ritmi di un romanzo che si vuole nel contempo sia di pensiero che d’azione. A meno di non chiamarsi Balzac.

Siamo estimatori del feuilletton e non solo di quello ascrivibile ad autori come Dumas, Sue, Stevenson ecc, ma esteso sino a Salgari e , perchè no, anche a Carolina Invernizio. Così come del pastiche letterario, qui non tanto filologicamente inteso come l’apertura all’intertestualità de Il nome della rosa , quanto all’ibridazione di stimoli diversi. Che, in un giovane autore certamente dotto, nonchè suffragato da un mestiere specifico, deve aver tuttavia creato una sorta di ansia da prestazione. Non così diversa, in fondo, da quella che deve aver posseduto un altro trentenne di talento, l’Andrés Neuman de Il viaggiatore del secolo. Con difettosità molto più lievi, seppur analoghe, ma con ben altro sorvegliatissimo risultato.

I nobili fallimenti ci commuovono sempre, come tutte le occasioni mancate che hanno richiesto faticoso impegno e nutrito grandi speranze. Mari il talento ce l’ha. Basterebbe che incontrasse un altro Gordon Lish (l’editor di Raymond Carver) ; dimenticasse gli insegnamenti delle scuole di scrittura dopo averli introiettati; immaginasse – se non di scrivere per se stesso – di farlo per un pubblico composto solo dalla nonna, dall’amico o dall’amata di turno e non con un occhio sia esperto che ingenuo al botteghino; e che infine il prossimo libro lo concepisse con la stessa generosità, ma – come si diceva un tempo a scuola – “con parole sue”. Non per inseguire il minimalismo monotematico, aggraziato e per signorine sentimentali di Paolo Giordano, ma per ritentare ancora una volta , possibilmente ,il rilancio del grande romanzo classico. Robusto, estroverso e nel contempo intimista. Previo sfoltimento metaforico di barba e capelli. Almeno, vorremmo sperarlo. E ci piacerebbe .

TROPPA UMANA SPERANZA di Alessandro Mari, Feltrinelli 2011 , pag.746 , 18 euro

La citazione :”Colombino si guardò i piedi, infilati nei calzettoni di lana e negli zoccoli. Tre passi, e tutto sarebbe cominciato. Tre passi soltanto. Perchè al primo si è solo partiti, al secondo si può ancora rinunciare, mentre al terzo è tardi, resta solo il tempo di guardarsi indietro.”

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