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SENZA TRAUMA. LETTERATURA DI GENERE E DI AUTOFINZIONE

Avvertenza: questa, più che una recensione, è un tentativo di divulgazione dei contenuti di un saggio di critica letteraria lucido, penetrante, scritto benissimo da Daniele Giglioli, ma con uno spessore culturale per addetti ai lavori. L’autore prende in esame i maggiori autori italiani degli ultimi vent’anni, analizzando i loro testi non sotto il profilo del merito – non ci sono giudizi di valore – bensì del sintomo. Trattando gli scrittori non come individui, ma come evenienze, ossia circostanze non fenomenicamente uniche, effetto del convergere di una serie di azioni e reazioni a monte del loro esistere e del loro esprimersi.
E dunque in principio fu il trauma, o, meglio , l’epoca del trauma senza trauma, o ancora , del trauma dell’assenza di trauma. Appunto quella in cui viviamo. Di cui tutta la letteratura cerca di darci testimonianza ricorrendo a quella che l’autore chiama scrittura dell’estremo, e che divide in due grandi filoni: la letteratura di genere e la letteratura di autofinzione.

L’idea di trauma gode di un grande favore: all’idea di trauma sembra ricorrere continuamente il linguaggio quotidiano e anche giornalistico, quando vuole sottolineare una intensità. Eppure, questo è un periodo storico in cui i traumi veri sotto forma di guerre, carestie, epidemie, conflitti religiosi non è che non ci siano, ma sono ai margini: non li viviamo direttamente, ma li immaginiamo dovunque. In un momento in cui la specie umana mai è stato tanto tutelata, in termini di felicità ed infelicità del singolo.
I traumi, anche quando ci sono, capitano agli altri, eppure è dall’immaginario traumatico che traiamo il paradosso del nostro modo di esprimerci. Sembra che senza il linguaggio del trauma non si abbia più niente da dire. Ed è proprio questo niente ad essere traumatico: siccome io sono ciò che ho subìto, se non ho subìto niente non sono nulla. Sotto il profilo dell’esistere, quindi, ecco che l’inauspicabile si rende desiderabile: la nostra esperienza impoverita si deve nutrire del trauma che non subiamo, delle vittime che non siamo.

Niente, se non la contemporaneità, accomuna gli scrittori italiani che l’autore cita e prende in esame. Eppure tutti, senza esclusione, hanno una somiglianza di famiglia appunto nella scrittura dell’estremo, che nasce da un disagio nel rapporto tra letteratura e mondo, la cui immagine è stata totalmente requisita dai mass media: non crediamo a nulla, e ingoiamo tutto; la televisione è il nostro Vietnam: offerta di immagini che non generano esperienza, anzi la requisiscono. In un’età in cui sappiamo, ma non esperiamo, la realtà tende a dissolversi. E la letteratura, per reagire a questo fenomeno,deve rincarare la dose: la crudeltà è garanzia di autenticità, l’eccesso include la norma. Con una profonda differenza rispetto all’arte che si ferisce mettendo in mostra corpi realmente tagliuzzati. La scrittura non può far questo, perchè la parola cane non morde.
Allora il reale, oggetto di supremo desiderio, non può essere guardato in faccia. Occorre aggirarlo, recuperando appunto la letteratura di genere e quella di autofinzione.

La letteratura di genere è declinabile in varie forme: giallo, noir, fantascienza, romanzo storico. Perchè queste forme e non altre? Intanto perchè la fortuna editoriale di cui godono indica un bisogno diffuso, profondo e condiviso. E poi perchè il genere, essendo l’esperienza – per i motivi di cui sopra – difficilmente rappresentabile, accetta frontalmente la sfida di calarsi nella finzione più scoperta, adottandone le formulazioni, la struttura e la tematica stereotipata.
I romanzi di genere presi in esame dall’autore ambiscono altresì a proporsi, sotto il simulacro della finzione, come una vera e propria controstoria dell’Italia contemporanea: la fiction pretende di svelare una verità che i metodi di conoscenza quali la storia, la sociologia, la filosofia, la riflessione politica non sono più in grado di offrire.
In ogni romanzo di genere l’estremo è un ingrediente obbligatorio, mentre il quotidiano è destituito di interesse. Alimento primo di questa letteratura è ciò che nè l’autore nè il lettore hanno visto, forzando gli autori il genere medesimo attraverso l’ibridazione di più generi, senza che tuttavia il risultato cambi. Perchè questa tipo di letteratura è necessariamente anche una geometria piana, bidimensionale, in cui sia ambiguità che sfumature sono proscritte, con un sempre più frequente ricorso a quelli che sono i linguaggi specialistici settoriali: legale, politico, anatomopatologico, mentre il linguaggio dei personaggi viene da un lato appiattito su di un italiano standard, che mutua il suo fraseggiare dal parlato; dall’altro procede ad una stilizzazione più tendente al grottesco, salvo la soluzione di Silvia Ballestra e Aldo Nove di ricorrere ad una oralità degradata. Mentre, in scena, trionfa il disfacimento e, soprattutto, la morte: non intesa come sofferenza di percorso, ma come immobilità di evento, tramite l’orizzontalità, la fissità, la decomposizione.

Oppure furoreggia la merce, dotata di un nome, di un marchio, di un’icona, mediante continui riferimenti al prodotto seriale. Serialità di cui godono anche i personaggi, spesso facenti parte – ad agevolarne il ritorno – di interi cicli loro dedicati. Sono, in genere, personaggi destinati a non cambiare nel tempo – da riconoscere senza identificarsi – che non presentano mai una eccessiva complessità, bastando i tic, le ossessioni, le idiosincrasie, le manie a contraddistinguerli. Analogo il discorso per gli intrecci. Che in apparenza sono sovente quanto mai complessi ma che, a guardarli bene, sono in realtà quasi sempre conclusi, finiti, dotati cioè di un inizio, uno svolgimento e una fine. Si capisce ciò che c’era da capire, non ci sono interrogativi senza risposta. L’unica cosa che rimane enigmatica è la visione di insieme, frutto di un attrito tra la trama compiuta e la sensazione di insensatezza e di abbandono in cui viene lasciata la realtà.

Circa il mondo sensibile, la letteratura di genere è ovviamente tributaria del cinema o della più vasta galassia dell’audiovisivo. Quindi non importa che una scena sia scritta bene, ma che rievochi una serie di scene analoghe già viste; basti pensare al numero di brani musicali citati dappertutto ad ogni piè sospinto.
Incapace di qualsiasi epifania, al contrario della letteratura novecentesca – illuminatrice di mondi, di nature, di uomini – la letteratura di genere è priva della possibilità tanto di far luce quanto di disporre di saperi propri. Il sapere è sempre affidato all’intervento di esperti specifici, alla cui medietà il lettore – piccolo borghese ormai planetario – deve poter accedere, secondo una formula in bilico tra conferma e sorpresa, istruzione e intrattenimento. In modo tale che il divario tra le possibilità di recepire del pubblico e quanto viene offerto dal libro non sia mai troppo alto.
In contrapposizione a tutto il novecento ( teso a portare il trauma reale all’interno dei propri procedimenti di scrittura : intermittenze, rotture, momenti spezzati dell’essere, flussi di coscienza ecc ) oggi le trame tornano ad essere ordinate, i personaggi consueti, la lingua accomodante. Il trauma reale dell’alta modernità è stato riassorbito: torna l’ottocento nelle psicologie, nei personaggi, nei temi: si veda la centralità della famiglia, che imperversa a vario titolo.
Tuttavia la scrittura dell’estremo nulla ha a che vedere con il realismo ottocentesco, che faceva l’inventario del mondo, in modo da far conoscere la società per poterla amministrare. Il sapere espresso dalla letteratura di genere è tutt’altro. La realtà cui allude è sfuggente, ingovernabile, non egemonizzata dagli individui e dalle loro associazioni, ma da una imperscrutabile razionalità sistemica. Poco spazio è rimasto all’iniziativa responsabile e quel poco è confinato nel recinto del privato, generando angoscia, che viene a sua volta esorcizzata mediante il ricorso all’azione cospirativa, devoluta ad un Grande vecchio o a qualche cosa che gli assomiglia.

I diversi affluenti della letteratura di genere tendono poi tutti a confluire nell’alveo del romanzo storico, con eroi che sono sempre troppo forti – o troppo fragili, come il lettore – per chiamarsi responsabili delle sconfitte.
Dunque, nella letteratura di genere, il possibile si fonda sull’impossibile e la storia fallita spiega l’impotenza del soggetto attuale, incapace di essere diverso da quello che è .

Passando al genere dell’autofinzione, Manzoni sosteneva che il romanzo storico è un “componimento misto di storia e di invenzione”. Giglioli fa propria la definizione, considerandola come la stella polare della vasta galassia della non fiction di genere, a cui apparterrebbero l’autobiografia, il reportage, il viaggio ‘d’autore’ e la saggistica a dominante narrativa.
L’autofinzione è un testo in cui , per contratto, non si può prescindere dall’immagine – se non dalla figura reale – di colui che scrive e firma. A differenza di chi sigla la letteratura di genere – a sua volta in qualche modo partecipe del mondo dell’invenzione – un autore di autofinzione è un soggetto che stipula con il lettore un patto,con l’impegno a considerare ciò che viene raccontato come emesso da una persona vera e concreta, obbligata a fornire ampie garanzie di referenzialità. Fosse anche tutto falso, quello che viene sottoposto all’attenzione di chi legge è comunque ‘il falso autentico’ di un’identità verificabile.

Ciò premesso, perchè anche in questo caso è utilizzabile il concetto di trauma e di scrittura dell’estremo?
L’autore risponde sostenendo che in tutte queste opere, a guardarle da vicino, viene inscenato un rapporto con la realtà in cui più il soggetto scrivente parla di sè, e più sembra relegarsi ai margini della stessa realtà indagata, dall’impotenza fino all’inesistenza.
“Il mondo esiste, solo che io non so che farmene, e così lui di me”. Intorno a questo assunto centrale, di nuovo traumatico tra il “io c’ero, ma potevo anche essere altrove” dell’autore e il “io non c’ero” del Lettore, si annida la letteratura di autofinzione, in perenne bilico tra l’autentico e l’inautentico.

Ecco quindi che, ancora una volta, si parla, si esprime, si dice tutto proprio per il timore di non essere e non esserci. Ma non si tratta di narcisismo, bensì di esibizionismo. Proprio perchè si dubita di disporre di un ‘dentro’, ci si estroflette verso il ‘fuori’, mettendo in scena non solo la propria espressione, bensì la propria condizione, intesa non come privata, bensì come comune anche a tutti gli altri: in termini di mancata presa su se stessi e sul mondo che viene condiviso con i lettori.

Quindi non il sentimento del possesso o della protesta, come nell’Ottocento, e neppure l’apocalisse, la redenzione o l’estinzione, come nel Novecento. Ma una perplessa navigazione intorno ad una realtà che preme, ed esiste, ed è dappertutto, ma non per noi.
Da cui, ancora una volta, il ricorso alla scrittura dell’estremo, costretta a forzare i toni in tutte le possibili direzioni, alla ricerca di un supplemento di superlatività che permetta obliquamente di rappresentare la norma.

Seguono, a suffragio, le pregnanti analisi di alcuni testi di scrittori italiani contemporanei, fra cui spiccano, in particolare, quelle su Roberto Saviano con ‘Gomorra’ (2006) Walter Siti con ‘Troppi paradisi’ (2006), Aldo Nove con ‘Woobinda’ (1996).

Giunto quasi alla conclusione della sua opera, l’autore si interroga sul proprio approccio, giungendo a chiedersi se il punto di vista adottato sia ascrivibile alla critica letteraria. Nel rispondersi affermativamente – ha analizzato tantissimi testi – sa di aver esaminato gli autori come sintomi e non come individui.
Rivalutando il concetto di sintomo, senza però che le opere vengano psicanalizzate come effetti della coscienza, della mente o delle nevrosi degli autori. Nè tanto meno dei personaggi,: Amleto, secondo un celebre aforisma di Lacan, non ha una nevrosi, ma mostra una nevrosi. Questo non comporta che i testi letterari siano una manipolazione di forme che si servono dei contenuti, delle tensioni psichiche e sociali come di un pretesto per allestire uno spettacolo.
Le opere sono un mondo, vengono dal mondo, producono effetti sul mondo. Dunque il sintomo è un’istanza della verità, e non è mortificante nè per i libri nè per gli autori venire considerati sotto questa angolazione.

Tanto più che viviamo in una società di feticci, che viceversa lavorano in senso contrario rispetto ai sintomi. Il feticcio è infatti ciò che permette di non sapere quello che si sa benissimo, spesso alla base della finzione narrativa :”io so bene che questa storia non è vera, ma tuttavia…”
Intanto però questo stesso modello scissionale della narrazione, fra vero e falso, permea non soltanto la fiction, ma tutta la società: “so bene che questa merce, questa icona, questo slogan, questo contratto, questo matrimonio, questo amore, e tuttavia….fingo di crederci”.

Il sintomo è il contrario: è l’emersione dolorosa di un contenuto inconscio, rimosso, imbarazzante, di una verità che rischia di sfigurarci, di una immagine che non possiamo accettare. Dove il feticcio nasconde, il sintomo rivela.
Si può e si deve usare il sintomo come una richiesta di vita, di una vita diversa. E questo vale anche per l’opera letteraria.
Altrimenti, rimuovendo il sintomo, o, peggio, cercando di guarirlo, si rischia di medicalizzare la vita sottoponendola alla disciplina della morte, non fosse altro che per allontanarla nel futuro.

Togliendo alle opere letterarie il loro carattere di feticcio, Giglioli cerca di farle attingere alla verità del sintomo, in modo da porre ai libri e agli stessi autori una domanda radicale: perchè, senza il linguaggio e l’immaginazione del trauma, la vita si rappresenti come priva di valore, abbandonata all’ insignificanza, condannata al silenzio o alla ripetizione? Giglioli tenta una sua risposta, cui rimandiamo, ma è un critico, mentre qui l’interrogativo è rivolto agli autori.

SENZA TRAUMA.SCRITTURA DELL’ESTREMO E NARRATIVA DEL NUOVO MILLENNIO di Daniele Giglioli, QUODLIBET 2011, 2022, 115 PAGINE

Daniele Giglioli è docente di Letterature Comparate all’Università di Bergamo; collabora con “Il Corriere della Sera”. Ha pubblicato, tra l’altro, Tema (La nuova Italia, 2001), Il pedagogo e il libertino (Bergamo University Press, 2002), All’ordine del giorno è il terrore (Bompiani, 2007), Senza trauma (Quodlibet, 2011) e Critica della vittima (nottetempo, 2014).

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