Film

RECENSIONI DI CAPOLAVORI INVENTATI

QUANDO IL CRITICO DIVENTA ANCHE AUTORE

Subjection, di Peter Weir, Australia/Nuova Zelanda, 120 minuti

Dopo anni di alti e bassi ritorna l’indimenticato regista di Picnic a Hanging Rock (1975), Un anno vissuto pericolosamente (1982), Witness (1985), L’attimo fuggente (1989), The Truman show (1998), Master and Commander (2003). E lo fa ambientando la storia di un gruppo atipico di studenti geniali nell’unico college della cittadina neozelandese di Christchurch. Testimone intraprendente, euforica e poi disperata la diciottenne italiana Alessandra, arrivata agli esotici antipodi grazie ad una borsa di studio. Il film mischia abilmente l’atmosfera amical amorosa del sestetto con l’arroganza di chi si sente superiore per bellezza e cultura, fino a confondere i confini del bene e del male, in un vortice di confidenze, fiducia, abbandoni, tradimenti, sullo sfondo di una natura abnorme che sembra riecheggiare le insidie nascoste nell’ambivalenza degli animi. Inventando un’informatica di tipo avveniristico sullo sfondo di una giovinezza che non potrà sbocciare nella maturità, Peter Weir saccheggia Poe ibridandolo con le immagini di una suspence alla Hitchcok, mentre il leit motiv della letteratura classica (da Guerra e pace alle poesie di Shelley e Keats) entra a far parte dei plurimi enigmi da sciogliere, prima della sorpresa finale. Succede sempre più difficilmente che un copione dal meccanismo perfetto si sposi tanto abilmente con la caratterizzazione dei singoli personaggi, sfidando limpidamente lo spettatore su più fronti, dai misteri dei singoli protagonisti all’orrore quotidiano dei comprimari come delle comparse, in un incalzare degli eventi dal piglio wagneriano. Magnifiche le atmosfere improntate al gotico inglese del diciannovesimo secolo e nel contempo rivisitate dall’ingenuità di un mondo imbastardito da una colonizzazione promiscua; folgorante la fotografia, tra il dagherrotipo e l’iperrealismo. Indimenticabile l’epilogo esistenziale sulla consapevolezza di quanto avrebbe potuto essere, non è stato e non tornerà.

MDB

La struttura dell’aria, di Peter Greenaway, Gran Bretagna/Italia, 103 minuti

“L’anno moriva, assai dolcemente…” e l’architetto Cultrera, divenuto celebre in quanto riedizione aggiornata e corretta del dandismo dannunziano, contempla la città di Roma che si stende ai suoi piedi nell’incedere del crepuscolo. In realtà, riesamina la sua vita, inconsapevole che la lettera d’incarico appena ricevuta ne svelerà l’unico segreto mai confessato a nessuno. Raggiunta Torino, affronterà uno strano committente dall’io diviso, che approva di giorno e disfa di notte i progetti proposti, approfittando di ogni anfratto dell’antico palazzo per seminare indizi inquietanti, in un gioco che è tanto una sfida all’ingegno quanto una trappola di depistaggio del colpevole. Approfittando del contrasto tra la solarità per giustapposizioni successive di Roma e l’apparente uniformità schematica di Torino, città al vertice della magia europea, il regista Greenaway mette in scena un racconto inquietante che sembra scritto da Carmelo Samonà (Fratelli,1968) insieme a Friederich Dürrenmatt (La panne,1956). E nel contempo riflette sul rapporto tra il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti e la Divina commedia di Dante Alighieri, perché l’inconsapevole Cultrera è altresì chiamato a ricostruire un edificio che è in realtà una catacomba di dannati atemporali, con ogni avello funzionale alla specifica pena. Sebbene da sempre Greenaway sia abituato al tema dell’arte (I misteri del giardino di Compton House, Il ventre dell’architetto) e a quello del doppio (Lo zoo di Venere) sembrava difficile che un regista gallese potesse penetrare così a fondo nel composito spirito italiano, realizzando un film di nitore palladiano, in grado di dosare sapientemente l’intrattenimento popolare del thriller con un intellettualismo esasperato, ai limiti dell’autoannientamento per eccesso di sofisticazione. Eppure la scommessa è vinta grazie ad un equilibrio tra l’algebrico e il sontuoso, il classico e il barocco che trova il suo punto di massima sintesi nella terribile scena della scala, i cui estremi si attorcigliano tra Piranesi e Escher, contrapponendo i due contendenti, che forse non sono due… Intanto la colonna sonora di Michael Nyman lusinga lo spettatore e poi lo terrorizza, mentre la macchina da presa sembra gassificare la realtà in omaggio al titolo del film, alternando la fotografia ai geniali bozzetti grafici dello stesso regista, in una concentrazione rara di talentuosità multiple.

MDB

La copertina è un disegno del critico -autore

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Marinella Doriguzzi Bozzo

Marinella Doriguzzi Bozzo