Film

CLOUD ATLAS

Chi ha almeno qualche mese in più di tredici anni (classe d’età a cui questa mappazza sembrerebbe destinata) ricorderà senz’altro un breve periodo culinario degli anni 80 in cui, sotto la poetica ma mistificante promessa di “menù mari e monti”, venivano abborracciati e assassinati gli ingredienti più antitetici, giusto per innovare e fare tendenza. Mentre tutti gli innocenti di ogni epoca sono viceversa stati fatti prigionieri da interminabili banchetti di nozze, con gran sudare di fuochi nelle cucine e plurimo serpeggiare di alcolici fra gli ospiti, per riuscire a tirare avanti con abnegazione.
Bene, si riuniscano i due delitti, e si riuscirà a dare un’idea per difetto di questo lunghissimo spettacolo, sceneggiato e girato da tre registi, fra cui duole riconoscere i due fratelli Wachowski, autori dell’indimenticato Matrix (1999). Film di cui rimane, come una rivisitazione sbiadita, solo il tatuaggio che là faceva da battistrada al denudamento di una realtà che ne celava un’altra, mentre qui unisce simbolicamente i protagonisti di ben sei diverse trame.

Trame di cui, tra un assopimento e un rigurgito, non siamo sicuri di distillare esattamente l’essenza e che accenniamo – contrariamente alle nostre abitudini – certi di non svelare nulla: si capisce comunque relativamente poco, ma almeno ci si fa un’idea dell’abbinamento sciagurato tra cinghiale, astice e vaniglia. Dunque, si comincia con l’irrealistico avvelenamento di un giovane avvocato americano abolizionista, boccheggiante su un veliero ottocentesco; si prosegue con un compositore gay degli anni 20 o 30, ricattato da un vecchio e celeberrimo genio della musica; si passa ad una giornalista di colore degli anni 70, che pare cerchi di indagare su una oscura macchinazione nucleare, mentre ai giorni nostri un decrepito editore viene forzato a far parte di un arzillo nosocomio-lager, secondo la parodia fiacca di un manierismo alla Mel Brooks; si termina in gloria con due fesserie ambientate nel futuro, in cui un clone asiatico scopre di essere allevato come cibo, mentre un mondo ricondotto ad una desolata preistoria funge da campo di battaglia del classico conflitto tra dominatori e dominati.

In mezzo, parole in libertà con cui si cerca invano di trovare un nesso mediante qualche aforisma enfatico – e perciò fintamente memorabile – sul senso dell’esistere, mentre un cast ricco di celebrità imbolsite cambia freneticamente trucco, costumi e capigliature, a sottrarre la paga sindacale delle comparse al contorno. Si vede dunque Tom Hanks (già irriconoscibile di suo) sfregiato, tatuato e infine con una parrucca gialla a mo’ di ananas basculante; Hugh Grant atticciato in un doppio petto manageriale che gli scoppia addosso come quello di Berlusconi, e in seguito dipinto come un pappagallo con i denti erborinati, ad impersonare una sorta di stregone; Susan Sarandon scempiata dalle più improbabili fogge e via spudoratamente elencando. Non si salvano nemmeno i più giovani e meno fisicamente deficitari, da Halle Berry a Jim Sturgess. Altro che il bel vedere di Keanu Reeves nei panni di Neo..

Si scordi il fatto che la sovrabbondanza citata in sequenza temporale disponga di un andamento lineare. L’ambizione del film è esattamente opposta, sicchè ogni trama si sovrappone all’altra sia in termini di contemporaneità delle azioni che in termini di sequenze narrative, iniziando, chiosando o finendo l’una quanto sta avvenendo episodicamente nelle altre. Ne sortisce un puzzle di tessere diseguali, con qualche apprezzabile virtuosismo nel montaggio e una pallida eco delle suggestioni scenografiche di Matrix, sulla scorta dell’idea della comunanza e della contemporaneità anche geografica delle vite, delle età e delle razze, che mette sullo stesso piano personaggi ed epoche nell’eterna lotta tra bene e male.

Quello che si risparmia sul cast, si sperpera economicamente nel trucco e nelle ambientazioni, generando uno spettacolo costosissimo(oltre cento milioni di dollari), noioso, ipertrofico, disuguale, denso di ingenuità e zoppìe corrive, che riesce a vanificare anche le sue suggestioni più riuscite. Si guadagna l’uscita estenuati per ipernutrizione da cibo fritto e rifritto, senza nemmeno poter rimpiangere di non avere gli occhi limpidi dei numerosi adolescenti in sala(peraltro con i mastelloni dei pop corn ancora quasi intatti dopo tre ore tonde) perchè anche la nostalgia e la fisiologia hanno i loro limiti: quando il brutto è troppo, il risultato non può essere che…troppo brutto.

CLOUD ATLAS di Tom Tykwer, Andy e Lana Wachowsky, Usa Germania Singapore Hong Kong 2012, durata 172 minuti

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