Film

CITY ISLAND

Il regista De Felitta ha un passato intenso di sceneggiatore e di musicista jazz. E si vede. Probabilmente ha anche lontane origine italiane, che non siamo però riusciti ad appurare.
Perché fin dalle prime inquadrature spira un’arietta casereccia. Un po’ forse in ragione del fatto che Andy Garcia, condannato dalla maturità ad una circonferenza addominale da gestante, ricorda in più di un’espressione Paolo Bonolis.

Poi, perché nella presa in giro di Marlon Brando, e quindi dell’Actors’ studio e del metodo di recitazione Stanislawsky, si mette un’enfasi burlesca sulla scoperta epocale delle pause inutili, sì che ci pare di risentire la Mina di oggi che scandisce lentamente, con enfatiche cesure, le virtù dei prodotti di una nota casa di pasta e merendine.

Infine, perché sembra di essere presso la generazione successiva agli italioti protagonisti di Stregata dalla luna (1987) che hanno fatto, come nucleo famigliare, un cospicuo passo avanti: meno tradizionali, più evoluti, discretamente benestanti, protetti dallo spazio confortevole di una contraddizione in termini: il quartiere/isola di pescatori nella parte più fotogenica e sicura del Bronx, improbabile villaggio-enclave della città-città per eccellenza: New York. E corroborati da una nuova forma di inserimento sociale: il posto fisso di matrice statale anziché quello dell’artigiano/commerciante di prodotti della patria d’origine (mafia compresa).

Ma non basta: la colonna sonora è varia, composita, gradevole e dominata dai motivi operistici tratti dalla Carmen; e anche se Bizet è francese, quando si parla di opera si sottintende il bel paese; non solo, tutti i protagonisti ufficialmente redenti fumano invece di nascosto come dannati, secondo l’inveterata abitudine dei “latinos” di cui in qualche modo facciamo parte.

E intanto la tragedia e la commedia si sfiorano, reinventando gli schemi classici degli antichi, in cui gli equivoci che generano riso e sorpresa sono in genere affidati a personaggi doppi: i gemelli, i fratelli, lo scambio di sessi, gli uni travestiti da altri. Ma siamo in una famiglia media apparentemente ancora tradizionale, in cui il singolo sgarra per conto proprio, per preservare un quieto vivere più ipocritamente simbolico/istituzionale che reale, però lontanissima sia da Aristofane come da Plauto o da Shakespeare. Dunque la doppia identità di ognuno è da affidare alle stesse personalità dei singoli, divise fra ruoli quotidiani e aspirazioni tanto velleitarie quanto segrete.

Infatti, il pater familias è un secondino, anzi, come si dice in tempi politicamente corretti (perché in realtà maleducatissimi) un Agente Di Custodia che però ambisce a far l’attore; la moglie, una Bovary che si crede ingannata e vuole rendere al marito corna per corna; la figlia, una ballerina di lap dance, anziché una studentessa universitaria sostenuta da una faticata borsa di studio; il figlio, un adolescente pervertito impavidamente ossessionato dalle donne elefantesche. E non manca nemmeno un altro figlio sconosciuto, generato per errore dalla prima sbadataggine sessuale di Garcia, giusto per dare luogo alla rivisitazione moderna di un altro evento classico: l’Agnizione Finale.

Perché, nemici del racconto delle trame, ci permettiamo un’incursione nel plot? Perché è la sceneggiatura che fa il film, e qui, come nella colonna sonora, affiora il collaudato tirocinio del regista: che affida alla parola personaggi, situazioni, dialoghi, battute, ipocrisie, finzioni e allusioni satiriche alla contemporaneità; molte, come oggi si suol dire nelle recensioni, godibili, a tratti addirittura esilaranti. Fino a tre quarti del film.

Mentre il finale invece accelera senza convinzione, i toni si fanno più urlati, lo scioglimento di tutto quanto lo spettatore sa (ma i protagonisti no) più melodrammatico, in un tentativo di rifare il verso a se stessi, che è indizio infallibile di quando non si sa più che pesci pigliare, ma bisogna comunque allungare un po’ la zuppetta, strizzando in contemporanea l’occhio al pubblico, come per dire “abbiamo scherzato, ma non del tutto”.

E tra baci, lacrime, abbracci, spiegazioni e perdoni, il tendone si chiude su una commedia garbata, che manca però (non si sa se per scelta o per incapacità) di alimentare con convinzione il doppio registro sia del genere buffo come di quello di costume, riconsegnandoci dal buio della sala alla luce del giorno, e dal fresco dell’aria condizionata al torrido della strada di luglio. Facendo un bilancio fra pregi e difetti, nonché per equità comparativa, il film varrebbe un sole ombrellato. Ma è estate, e in coda per il gelato alcune battute ed espressioni mimiche tornano automaticamente alla mente. E ristrappano contingentemente una risata, destinata tuttavia ad esaurirsi alla prima distrazione degustativa. Pertanto si può essere stagionalmente, ma solo per motivi metereologici nonchè concorrenziali, leggermente più indulgenti del solito, grazie soprattutto ai primi 80 minuti di buon artigianato.

CITY ISLAND di Raymond De Felitta , Usa 2009, durata 100 minuti

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