Film

DA RIVEDERE IN VACANZA

Thriller

MICHAEL CLAYTON, DI TONY GILROY, USA 2007, 119 MINUTI

Sottovalutato e rotolato via dalle sale senza troppi clamori, Michael Clayton è un film diverso. Una qualità che è sempre più difficile riconoscere alle pellicole odierne, produzioni che quando non sono veri e propri remake, ripercorrono comunque trame e costruzioni scenografiche viste e riviste, senza alcuna scintilla di vita propria. Un film diverso, con un diverso George Clooney protagonista sofferente e amarognolo dalla professione indefinita. Michael Clayton, dunque – risolutore di pastoie legali in essere o potenziali, per clienti particolarmente abbienti che non possono e non devono sottostare alle regole dei più. Intorno a lui, il dipanarsi di una storia di cui allo spettatore non viene inizialmente concesso molto, una complessa equazione di “superiori interessi” economici che va via via semplificandosi ad opera di personaggi borderline, interpretati magistralmente – tra gli altri – da Sydney Pollack e Tilda Swinton. Atmosfere sospese e surreali, una fotografia livida ed un alternarsi di tempi narrativi ora soporiferi, ora martellanti, per raccontare una non-storia di accusa, coscienza e morale densa di monologhi e introspezioni. Un’analogia azzardata: strappate via l’ambientazione futuribile ed il teatrino di androidi dal ben più noto Blade Runner, ed otterrete qualcosa che non è troppo lontano da Michael Clayton. Ma lo ribadiamo, questo è un film diverso. E come tale scriverne non è facile: quando sarete giunti ai titoli di coda, vi sembrerà di non ricordare nulla del protagonista, vorrete rivederlo, e questa volta – magia – non rammenterete un granché della trama.

Western

APPALOOSA, DI ED HARRIS, USA 2008, 110 MINUTI

Bel film, che dimostra come i generi siano una nomenclatura di riferimento e come talvolta un genere possa venire non tanto rivisitato, quanto usato per trascolorare, enfatizzandolo, quello di cui si parla. In questo caso, del sodalizio professionale e umano di due pistoleri dalla parte della giustizia e di una donna che deve campare e che l’istinto di conservazione, ancora prima dell’ambiguità, spinge di volta in volta a essere, o cercare di essere, la donna del capo. Del capo del momento, s’intende, finché la mutevole sorte del west, circoscritta più che altrove al vivere o morire, non ridiscute le carte. Uomini che parlano di donne dunque, in maniera pudica e quasi silente, e donne che si dividono in perbene e permale, secondo una convenzione che trascura le anime e le intenzioni. E poi il coraggio e la paura, il giusto e l’ingiusto, l’orgoglio e la viltà, la virilità e la femminilità, la convenienza e la convinzione. E l’accoppiata maschile che si completa di più e meglio di quella donna-uomo, perché immune dal possesso e, almeno in questo caso, non legata alla competizione. Uno dei pochi film in cui il subordinato completa, arricchisce ed illustra il capo, pur “avendo dei sentimenti” che lo destinano a essere secondo. Ancora una volta Viggo Mortensen si ritaglia intelligentemente un personaggio a sua misura, saldo, elegante e virile, che grandeggia lungo tutto il film che gli ruota attorno. Ben sceneggiato, ben diretto , ben fotografato, con un occhio attento alla smitizzazione della grande epopea – Appaloosa è una “cittadina” di poche case, calzini e mutande sul finire dell’Ottocento – e una significativa valenza estetica non tanto sulla natura, quanto sul vestire e muoversi dei protagonisti, che sembrano cavalcare danzando al ritmo dell’immaginazione di un grande costumista. Tre stelle abbondanti, perché la quarta non è conquistabile a causa di un eccesso di diligente rigore che raggela un po’ le emozioni. E qui bisognerebbe aprire una riflessione sul fenomeno degli attori americani che, numerosi, sanno passare alla macchina da presa con risultati spesso molto buoni, quando non eccellenti. Fenomeno che, viceversa, l’Europa quasi non conosce.

Sentimentale/erotico

UNA RELAZIONE PRIVATA, DI FREDERIC FONTEYNE, FRANCIA 1999, 80 MINUTI

Quando si è bambini, alle prime rivelazioni sul sesso, si scrutano le persone adulte pensando che “il fare le cose” in modo nascosto, ma così intimo, così misterioso, così totale, debba lasciare dei segni fisici manifesti, delle marchiature indelebili. Invece non si vede granché, per non dire nulla. Tutti si aggirano come al solito, come se niente fosse. Su questa insignificanza dell’accadimento fisico si basa l’iniziale convinzione dei due protagonisti del film, che s’incontrano mediante un’inserzione per soddisfare una (comune?) fantasia erotica. Poi lo scorrere degli incontri nella stessa camera d’albergo e l’impatto di un episodio esterno coagula, come l’incistamento di un granello nell’ostrica, il progressivo formarsi della necessità di andare oltre e quindi di ri-conoscersi. Ma la paura del coinvolgimento sentimentale e della possibilità di un’accettazione sbilenca, quando non unilaterale, riscioglie la perla, e la memoria aggiusterà come potrà, con il passare del tempo, il rimpianto, anch’esso per estrema difesa volutamente asettico, di un’occasione d’amore unica e perduta. Girato con dosata parsimonia di tempi e di effetti, sceneggiato e dialogato con malinconica finezza conoscitiva, interpretato benissimo da due attori in apparenza “comuni”, Sergi Lopez e Nathalie Baye (Coppa Volpi a Venezia), è uno dei migliori film d’amore visti negli ultimi anni, sicuro nella descrizione di un’esitazione esistenziale, attento a ogni minimo dettaglio ma con effetti di semplicità e di naturalezza estremi. Anche il colore concorre, azzurro d’acquario nei rapporti tra i due, pesci boccheggianti che temono di andare oltre la pelle, e rosso nella stanza, dove si svolge qualche cosa che ha molto più a che fare con l’anima e la mente che non con il corpo. E che finisce così, in una strada qualsiasi, laddove molti altri individui, meno audaci o più spregiudicati, cominciano.

Drammatico

L’AMICO DI FAMIGLIA, DI PAOLO SORRENTINO, ITALIA 2006, 102 MINUTI
“Disgusto”… no. “Fastidio”, forse… ma no, non è neanche questo. Ecco: Disagio. Non credo esista un termine che possa riassumere con maggior semplicità quello che proverete, esposti a L’amico di famiglia, di Paolo Sorrentino. Un film che inciampa su se stesso, una storia che il regista mette in scena con tanta fedeltà a quella che dev’essere stata la sua visione originale, da eccedere nei confronti dello spettatore. L’amico di famiglia, è presto rivelato, in effetti è un usuraio: Geremia detto cuore d’oro, interpretato da Giacomo Rizzo. Indescrivibile nel suo concentrare in se ogni qualità negativa dell’essere umano. Un mostro, dentro e fuori, intorno a cui Sorrentino fa brulicare un cosmo di derelitti, di storie miserabili, piatti di plastica e spiagge luride, sale da bingo e puttane con problemi di aerofagia. Scenari e disposizioni felliniane, di un ipotetico Fellini disincantato e percosso, per centodue minuti che sembrano tre volte tanti nell’incastrarsi sghembo di eventi, inganni e rovesciamenti. Sorrentino parrebbe voler comunicare qualcosa e allo stesso tempo nasconderlo, giocare ghignante con lo spettatore: c’è qualche taglio di troppo, qualche sequenza gratuitamente grottesca, ma anche la capacità di legare magistralmente personaggi ad attori (già dimostrata con Le conseguenze dell’amore) che sana tutto. Dopo i titoli di coda, sentirete forse il bisogno di lavarvi via di dosso qualcosa di indefinito, una patina, un umore – eppure, consiglierete L’amico di famiglia ai vostri amici così come noi ve lo consigliamo ora.

Noir
ONORA IL PADRE E LA MADRE, DI SIDNEY LUMET, USA 2007, 120 MINUTI

Un film in forma di fiore, professionale e intelligente. Con una sceneggiatura dominante, che sgrana i suoi petali ad uno ad uno con la regolare precisione di un rosario funebre. Partendo dal centro dei fatti, una rapina ad una gioielleria. E poi ripercorrendoli separatamente secondo non tanto il punto di vista, quanto la nuda dinamica degli eventi riferibili ai singoli partecipanti. Ogni specifico elemento è inserito scorrendo avanti e indietro nel tempo, per poi tornare inesorabilmente al centro. Componendo così una forma articolata e senza scampo di sboccio progressivo che alla fine rende lo spettatore edotto circa la tipologia appunto di fiore – geometrico e mortuario – che si sta contemplando, perché tutto è già dato, ma lo si vede compiutamente nella sua mostruosità solo alla fine del disegno. E senza artifici né concettosità particolari si configurano nel contempo anche le psicologie dei protagonisti, tutti sorretti da una eccellente recitazione, tutti compartecipi non tanto di un male innato, quanto portatori di una predisposizione che si manifesta in funzione delle circostanze e degli eventi. E che il caso distorce e scatena fino a multipli punti di non ritorno. Denso di temi esistenziali ridotti al nocciolo, sostanziato da una regia e da un montaggio di grande qualità, che non si distrae mai dal proprio umano e disumano percorso, pur arricchendolo di continui, perfetti dettagli, è un film che cresce progressivamente nella memoria più come prodotto dell’ingegno che non come espressione – seppur aberrata – del sentimento. E che,come Michael Clayton, guadagna dalla molteplicità delle visioni, anche in tempi ravvicinati.

Cartoon

RATATOUILLE, DI BRAD BIRD, USA 2007, 111 MINUTI

Se avete deciso di avvicinarvi al mondo dei film d’animazione, non iniziate con Ratatouille: tutto quello che vedrete in seguito vi sembrerà scialbo e realizzato a tirar via. Perchè Ratatouille è un piccolo capolavoro in cui nulla è fuori posto, nulla è eccessivo o grottesco, e tutto – per mantenere il tema cuciniero – si amalgama a perfezione senza un grumo o una bollicina di troppo. La trama: in un ristorante che ha perduto il prestigio della quarta stella l’ultimo arrivato, lo sguattero Alfredo Linguini, diventerà rapidamente chef e salvatore sotto la guida segreta di Rémy, un topo dall’inusitata sensibilità gastronomica. C’è una ricerca certosina del dettaglio, in Ratatouille, una realizzazione grafica che per nitore e vibranza cromatica non ha a tutt’oggi concorrenti, nonostante la nota rapidità evolutiva della computer graphic. Ricercato, anche, è lo stile narrativo – a momenti davvero soave, come nella riscoperta dell’infanzia del feroce critico Anton Ego. E ancora, è peculiare la “democrazia caratterizzativa” del piccolo cast, in cui i personaggi sono quasi tutti ugualmente profondi e approfonditi. Atmosfere da film francese, dunque, deliziosi richiami al mondo reale dell’alta cucina e svariati anagrammi e gambetti letterari da individuare qua e là lungo la storia. Una ricetta semplice e ben riuscita: tutta la “magia” Disney dei lungometraggi d’animazione di una volta, squisitamente mescolata con la tecnica e l’ironia adulta della Pixar. Bravò!

Romantico

LA SCHIVATA, ABDELLATIF KECHICHE, FRANCIA 2003, 117 MINUTI

Una banlieue parigina multietnica ma non disperata; una commedia di Marivaux provata e riprovata per un affollato saggio scolastico finale; un’adolescenza per bande che anziché esprimere violenza si fa collettivamente e veementemente gli affari amorosi della comunità. Così, tra una prova e l’altra, mentre Marivaux dispiega i suoi artifici e i suoi travestimenti – tanto i poveri sceglieranno sempre i poveri e i ricchi sempre i ricchi, secondo un fissismo sociale che non ha riscontri in una realtà razzialmente variegata ma comunque di aspiranti omogenei all’emarginazione – lo scuro Krimo si innamora della bionda Lydia. E nel linguaggio ben più crudo dei giorni nostri, dove gli adolescenti parlano più grande di loro, si svolge un’altra commedia degli equivoci, non galante, non preziosa, ma romantica e senza appello. Che, come la schivata amorosa che la protagonista della commedia esegue con perizia innumerevoli volte per difendersi con il ventaglio dalle brame di Arlecchino, finirà anch’essa in niente, ma a parti invertite, come appunto nella pièce Il gioco del caso e dell’amore. E tanto Marivaux è brillantemente verboso, tanto i protagonisti sono crudi e pragmatici, giocando attraverso il teatro a un altrove di evasione, ma vivendo i casi dell’amore sia come una condizione senza appello sia come una prova di vita, che finisce solo perché altre ne comincino. Sceneggiato in modo egregio, con dialoghi psicologicamente perfetti, costruito come un orologio, ma girato con fare apparentemente amatoriale, è un grande film che riporta ai primissimi, misteriosi conati del sentimento, dove le seduzioni sono ancora un vero, stordente, irripetibile sperdimento di sé.

Documentario

FRANK GEHRY,CREATORE DI SOGNI, DI SYDNEY POLLACK, USA 2006, 83 MINUTI

Da Leon Battista Alberti a, diciamo, Vittorio Gregotti, gli architetti europei hanno spesso e a lungo teorizzato l’architettura. Talvolta con risultati così pensosi da sopraffare le loro stesse opere, inducendo l’interrogativo se queste erano frutto delle loro idee o se viceversa le visioni servissero a giustificarle e nobilitarle ex post. Niente di tutto ciò nel documentario di Pollack. L’architetto si presta al dialogo con l’amico, inframmezzato dal giudizio di eterogenei testimoni e dall’illustrazione delle sue opere: dalla maquette all’edificazione in scala reale. Pori spessi, naso spesso, pancia spessa, mascelle spesse, tempra spessa irrobustita dal successo, il protagonista ultrasettantenne nasce al mondo della popolarità e della moda tardi, negli anni ’80. E qualunque sia l’ego che lo psicanalista tenta di testimoniare, si pone come un artigiano, il realizzatore materiale di un’idea, il conduttore di una équipe, il testimone e l’erede di un percorso appassionato quanto quasi casuale, da camionista a studente a robusto ma pacato visionario. Nessuna teoria, neanche l’accenno di una qualsiasi weltanschauung, tanto da indurre nello spettatore per un attimo la sensazione che il gioco sia facile: un lego di cartone argentato e altri materiali, in cui un sarto del concetto aggiunge e toglie, secondo impulsi non spiegabili di capriccio e di gusto. Ma poi l’originalità fisica delle realizzazioni vanifica la sensazione, se si pensa che là dentro si svolgono avvenimenti sofisticati e che tutto sta in piedi e funziona. Semplice, agevole, chiaro senza didattismi, affettuoso senza idolatrie, questo documentario è un esempio gradevole e utile che andrebbe seguito, non solo a edificazione di spettatori paganti, ma anche a beneficio di molte scuole.

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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