Libri

VIZIO DI FORMA

1953: Raymond Chandler pubblica Il lungo addio.

1969: Charles Manson assassina Sharon Tate ed alcuni suoi amici, penetrando nella villa di Cielo Drive, a Los Angeles.

1978: John Milius dirige il film Un mercoledì da leoni.

All’interno di queste tre coordinate temporali si ammassano, si sovrappongono e si confondono la figura tipo dell’hard boiled americano , il detective Marlowe, romantico e idealista, cinico e precario, che racconta le proprie avventure come pretesto per parlare di sè e della propria visione del mondo; il delitto di una setta ,che segna una svolta cruenta nella percezione della cultura hippie di libertarismo, droga e fiori; la nostalgia romantica della giovinezza, intrisa d’amore, d’amicizia e di morte sulle onde lunghe del surfing californiano.

A 73 anni Thomas Pynchon, scrittore mitico quasi quanto Salinger per la preziosità elaborata della sua scrittura e per il suo vivere appartato, si impadronisce di questi elementi e rovescia gli spiccioli e forse l’anima delle proprie tasche in un romanzo di genere del tutto diverso dai suoi precedenti; quasi a voler recuperare un tempo eroico perchè ormai scomparso, le forme del racconto tradizionale di larga divulgazione , e una scrittura agevole , per non dire quasi piatta, quindi di immediata comprensione.

Naturalmente, operando a modo suo, ossia mettendo in scena il detective dilettante Doc Sportello, cascame goffo, marginale e perennemente fumato di un movimento giovanilistico ormai agonizzante, in una Los Angeles periferica agli inizi degli anni settanta. Intorno, la ferocia della speculazione edilizia, l’arrivismo senza frontiere di professioni ufficiali di copertura, la nuvola labile di una colonia di nullafacenti dalle velleità incerte, la corruzione della polizia che assurge a modello filosofico. Sullo sfondo, un mare pretestuoso per tavole da surf che vengono più trasportate che praticate, in sostituzione di altre possibili identità sempre futuribili; il pullulare di case come rifugi di ventura, di locali per cibo, ballo e musica come alibi di spaccio; di canzoni come di spezzoni televisivi di programmi seriali, di macchine, di vestiti , di marchi d’epoca ( tanti, tantissimi i loghi di consumo) e di pioggia che sempre si trasforma in fango. Ma, soprattutto, di continue sparizioni centrali e collaterali, con la conseguente inflazione di chi cerca chi, permettendo al protagonista di svagatamente riflettere, interloquire, agire. E, seppur alquanto irrealisticamente, anche di campare.

La struttura del romanzo è un ossimoro geometrico. Data una retta rappresentata dalla ricerca di un personaggio portante, l’azione si dirama asmatica secondo un disegno bronchiale di intersezioni continue per ritornare circolarmente su se stessa. Dando origine ad una sorta di sperdimento labirintico e nebbioso, contrappuntato da continui riferimenti specialistici e pedanti alla realtà del consumo quotidiano di snack e di spinelli, come di numerose altre sostanze alteranti per addetti. Il linguaggio si semplifica in una sorta di diario incerto degli avvenimenti, in cui dialoghi pensieri e atti incespicano continuamente in citazioni di ogni possibile sorta di modernariato d’epoca. Con conseguenti difficoltà nel seguire cosa succede, così come nell’apprezzare i riferimenti ad un tempo cronologicamente e anche geograficamente ormai lontano, anche se ancora in parte radicato in alcune odierne conseguenze, riassumibili in una sorta di coscienza alternativa, o non integrata. Che sembra essere la vera cifra nostalgica del libro.

L’ironia è uniformemente diffusa senza mai trasformarsi in riso oppure in divertimento, quasi a voler significare che si fa sul serio, ma anche no. Il personaggio è uno, ma sdoppiato in una vertigine di cloni che gli si affollano intorno, con particolare enfasi, talvolta felice, sui dettagli dell’essere femminile, e quindi tanto lusinga empirica quanto labile e capriccioso mistero. Che dà origine alle non numerose descrizioni pregnanti del romanzo: “Shasta poteva passare settimane senza far niente di più complicato di una smorfietta”. E qui siamo dalle parti dei vertici toccati. Ci si annoia, perchè la vicenda è dilettantesca e pretestuosa senza essere metafora di alcunchè e il tutto riesce a complicarsi da solo , pur essendo semplicistico e quasi parodisticamente programmato.

Col tempo abbiamo preso a diffidare degli autori che, raggiunto lo stato di venerabili querce, vengono trasformati da improvvisi rigurgiti di zefiro in fiordalisi di campo. Con risultati che dovrebbero ricondurre al mestiere che si sa fare, senza tentazioni verso altre contaminazioni. E, se ci si interroga sulle ragioni del fenomeno, saltano in mente molte risposte indiziarie ( anche economiche ) che però non costituiscono prove e finiscono perciò negli omissis. Certo, in questo senso, Pynchon non è l’unico. Anche John Banville, per esempio, uno dei romanzieri contemporanei più dotati, sfida ogni tanto se stesso producendo dei gialli /noir abbastanza pedissequi e impersonali. E, a questo punto, un pensiero riconoscente come un inno nazionale corre a James Crumley o a Joe Lansdale, prolifico e diseguale scrittore, anche lui spesso sul genere finto investigativo d’epoca, ma dotato, nei momenti felici, di una vis comica e ironica, nonchè di una scrittura esistenzial fumettistica di ben altra potenza e gittata.

Vizio di forma , dunque. Ma anche Vizio di contenuto. E forse, per chi si è viceversa sdilinquito, Forma di vizio.

VIZIO DI FORMA di Thomas Pynchon, Einaudi Stile libero 2011, 472 pagine, 20 euro.

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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