Film

THE SOCIAL NETWORK

Circa vent’anni fa ricevevo un invito a un dibattito di studenti bocconiani. Il titolo era: Noi come Romiti? E il fatto che un manager, per di più ultrasessantenne, fosse additato sia come un mito omerico che come un traguardo lentamente raggiungibile, faceva un po’ sorridere e un po’ riflettere. Oggi tutto è vertiginosamente cambiato. Il fenomeno della rete, per la prima volta nella storia, ha reso miliardari dei ragazzi. E nel corso di pochissimo tempo. Ma i miti di riferimento si sono spostati altrove, e credo che ben pochi attualmente si confronterebbero con Page o Brin, ideatori di Google, avendo come orizzonte la disoccupazione e come riferimento di lotta un posto da precario.

Il film sembra essere consapevole di questo fatto e, nel descrivere l’ascesa del fondatore di Facebook, adotta il tono smorzato dell’equidistanza biografica, dovendo altresì farsi intendere sia dal nerd accanito come dallo spettatore tecnologicamente digiuno, per quanto magari utente. Lo fa quindi in modo molto tradizionale, mettendo in campo una verità romantica e un po’ scontata, giocata sull’equazione successo/solitudine, soldi/tradimento, però alla luce di un paradosso più affascinante del solito: perché si parla di Facebook, il mezzo relazional-amichevole per eccellenza. Perché si crea una specie di cortocircuito interno ai fatti, che alterna la cronologia fisiologica della storia con i processi dovuti alle susseguenti cause intentate dagli ex amici; e infine perché si dà al tutto la cornice rotonda dell’apologo.

Il fondatore ormai solo a fine percorso, è quasi lo stesso gelido imberbe dell’inizio. Sicché ci piacerebbe vedere scritto: “Continua….” se non altro perché ne sapremmo contemporaneamente di più anche su noi stessi . Ma, guardandomi intorno, mi è capitato di assistere ad un altro fenomeno del tutto inusuale per un biopic: l’età media degli individui in sala, per quanto relativamente bassa, era comunque al di sopra delle ragionevoli aspettative di vita del protagonista sullo schermo. Sicché molti spettatori si rassegnino. E’ infatti possibile che il sequel conclusivo, peraltro nemmeno minacciato, non riusciremo/ riusciranno a vederlo.

Basato sul libro Miliardari per caso di Ben Mezrich, la scena d’apertura riguarda l’alterco fra Mark Zuckerberg, un giovane studente di Harvard, reso impenetrabile dalle lentiggini che gli ricoprono il volto, e la di lui avvenente ragazza. Che lo pianta, decretandone da subito il percorso di perdente di successo. Raggelato davanti allo schermo del suo computer, Mark indice un concorso tra le beltà locali, adendo proditoriamente agli archivi fotografici del college. L’immediata appetibilità della gara lo rende improvvisamente popolare, facendolo avvicinare anche dagli dei del momento, sportivi e ricchi di famiglia.

A questi Mark rifiuta la collaborazione, evidenziando un altro lato debole della sua tenacia: l’invidia sociale. Motivato da due negatività e innamorato della sfida tecnica attorno a cui iniziano a girare vertiginosamente anche i quattrini, il giovanotto prosegue il suo percorso con un socio, che in qualche modo tradirà, affiliandosi il cofondatore di Napster, Sean Parker. E cominciando a sostenere cause legali per la paternità della creatura, il cui successo si allarga territorialmente di giorno in giorno.

E mentre intorno a lui folleggiano lusinghe di vita ed eccessi giovanilistici, fino al limite del codice penale, l’eroe ha in mente solo l’espansione del network, rimanendo lesto di lingua e impermeabile ad ogni tentazione ludica. A dimostrazione che il caso bisogna intanto saperlo riconoscere per afferrarlo, ma poi perseguirlo senza demordere, e anche a velocità sostenuta. Giocando magari a bowling contro i propri compagni di cordata, fino a farli cadere ad uno ad uno.
Qualificato sempre negativamente- il più ricorrente e benevolo degli epiteti è “stronzo” -curiosamente non si riesce ad odiarlo, questo ragazzo. Non si sa se per l’ammirevole interpretazione di Jesse Eisenberg, o per prudenza del regista, che lo guarda con una qualche nemmeno troppo recondita tenerezza. Sicché tutta la partita, anche drammatica, che si va tessendo rimane comunque una sorta di serio gioco tra ragazzi. Per cui viene da chiedersi: cosa ne avrebbero fatto dello stesso soggetto Oliver Stone o Michael Moore?

Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo,invece, è che il giovane tycoon in carne ed ossa (26 anni e un patrimonio netto di quasi 7 miliardi di dollari) non ha battuto ciglio, ha affittato un autobus a Palo Alto,e ha mandato i suoi dipendenti a vedere il film. Grato che se ne parli, probabilmente, e comunque meglio di quanto la storia non tenti di adombrare, anche se con qualche ambiguità assolutoria..

Storia che filmicamente ha parecchi meriti: il coraggio di affrontare una contemporaneità scottante; l’accuratezza della messa in scena; l’eccellenza sia fisiognomica che interpretativa di tutto il cast; la semplicità senza didattismi che coinvolge ogni tipo di spettatore, introducendolo a una realtà che comunque, utenti o non utenti, non si può ignorare (perché tutti, ci piaccia o meno, siamo anche Facebook). E qualche difetto: una certa mancanza di emotività e di passione in una storia anche molto passionale e la presunta equidistanza, che tale non è, ma che talvolta genera qualche piattezza che si vorrebbe giovanilmente scuotere per il ciuffo.

THE SOCIAL NETWORK di David Fincher, Usa 2010 , durata 120 minuti

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