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LE COLPE DEI PADRI

Nonostante la comune cittadinanza, il caso non ci ha mai portato a leggere alcunché di Alessandro Perissinotto. Allora, quale migliore occasione della sua candidatura al prossimo premio Strega per accostarlo, e nel contempo cercare di capire dove stia andando uno degli eventi letterari più storicamente blasonati? Perché, dopo la vittoria per signore e signorine fintamente problematiche de La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e dopo l’esclusione per eccesso di elitario busismo de El specialista de Barcelona di Aldo Busi, come si collocheranno gli scrittori, le case editrici e l’humus culturale del paese rispetto ai vincitori di un tempo: Flaiano, Cardarelli, Pavese, Alvaro, Moravia, Soldati, Comisso, Bassani, Morante, Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Cassola, La Capria, Tobino, Ginzburg, Arpino, Volponi, Ortese, Romano, Piovene, Landolfi, Levi, Eco, Parise, Citati, Bufalino, Magris, Siciliano, Ferrero, Starnone…?

Le colpe dei padri promette di iniziare e finire con un pugno e un colpo di pistola – o viceversa – e questo già dispone bene il lettore, che spera in una trama avvincente, forse strutturata in forma circolare, con un meditato percorso serpeggiante tra analessi e prolessi. Che continua presentandoci un quarantacinquenne Guido Marchisio, dirigente in carriera, sufficientemente banale per poter operare con successo in una multinazionale tedesca con unità operativa dislocata in Torino. La scrittura è di una sequenzialità cronachistica di immediata adesione, la situazione con giovane donna al contorno di classica maniera, l’ambientazione industriale pure. Si prosegue pensando che la letteratura non è adatta al lavoro aziendale, perché non lo patisce e non lo approfondisce: come nell’Ottocento, anche nel nuovo secolo il romanzo pare più incline a raccontarci di abbienti nullafacenti o comunque con impegni tanto vaghi quanto di moda (artisti, giornalisti, finanzieri, fotografi, politici, hacker) generatori incongruenti di povertà come di ricchezza, mentre tornano alla mente i pochi che in Italia se ne sono occupati credibilmente, come Levi, Mastronardi, Ottieri, Volponi.

Tuttavia l’edulcorazione del trattato di Jung sulla Sincronicità provvede presto ad intorbidare l’iniziale linearità e, tra coincidenze significative e gemellarità alla Cronenberg (che si scrive con la n prima della b) affiora la possibile ipotesi di un passato che squarcerebbe la monocroma unicità filiale del nostro dirigente, portatore di due iridi di colore diverso al posto della più scontata voglia di fragola in zone celate. Però, subito dopo, depistaggio nel depistaggio, un incendio doloso insinua l’elemento anni ’70 delle Brigate rosse, che pende sui giorni nostri come la minaccia di un’oppressione dormiente.

Allora si comprende la metafora di una vicenda a identità multiple eppure contigue (quella del singolo protagonista e quella di una città e di un paese tagliate in due da un allora ed un adesso), mentre il testimone-autore ogni tanto ci ragiona sopra, inserendo dei fuori campo come cornici dorate intorno ai vari fotogrammi. Dalla metà in poi la strada è segnata e i panorami ai bordi recuperano il positivo intimismo dei ricordi, la fabbrica si precisa meglio, mentre lo scheletro strutturale si appalesa, lascia l’armadio e rende conto dell’ingegnosità un po’ artificiosa della costruzione, tra agnizioni da moderno feuilleton e delocalizzazioni industriali un po’ da bignami. E si comprende anche perché, parlando spesso di numeri primi – magari gemelli – questo sia un libro con forti probabilità di aggiudicarsi il Premio.

Le colpe letterarie degli scrittori padri non hanno avuto seguito, mentre quelle culturali della classe dirigente (e della popolazione che vi si rispecchia) sì. Seduta, anzi ormai sdraiata sul petrolio della bellezza e dell’arte, l’Italia si è progressivamente dedicata ad una pervasiva analfabetizzazione di ritorno, avvilendo la natura, la scuola, gli insegnanti, la ricerca, le televisioni, i musei, i teatri, le biblioteche, le case editrici sulla base del jingle che la cultura non si mangia. Epperò mantenendo contraddittoriamente un forte anelito al come eravamo, da cui gran traffici di festival, di iniziative, di concorsi, di libri come yogurt, tutti protesi al mercato del “fingiamo che”: fingiamo che i libri in classifica si possano leggere solo se accompagnati da altre letture, che la critica abbia mantenuto la voglia di essere tale, che l’auspicabile autodidattismo di ognuno venga provocato e incoraggiato verso l’alto e non verso il basso, eccetera.
Il libro di Perissinotto forse non rimarrà nel tempo, come invece molti – non tutti – dei vecchi “streghisti” sopra citati, però se ne comprende la presa – per relativo confronto odierno – sulla base di un ingrediente di sicura attrattiva, anche commerciale, che si chiama non tanto semplicità quanto semplificazione. Opera artigianale sicuramente faticata e degna di rispetto, tocca multiple corde tra realtà e invenzione, senza impegnare troppo: l’incubo del terrorismo, la Torino di un tempo (e non parleremo di laboratorio socio-industriale), la Fiat, eterna Moby Dick spesso maldestramente affabulata ad orecchio (allora per sacralità, oggi per lontananza) e, soprattutto, lo smarrimento identitario singolo e collettivo, tra le oscurità del passato che si riversano senza remissione nelle intimidazioni del futuro.

Certo, si vorrebbe che la parola, invece che fin troppo professionalmente funzionale ai fatti, disponesse ogni tanto di uno scarto, di un incantamento, di una metafora laterale, di un qualche cortocircuito autoriale che inanelli altri cerchi e risvegli altri echi, distinguendo lo scrittore dall’editor di se stesso. Però forse ne risentirebbe l’attenzione, perché questa è un’opera che addiziona programmaticamente vari fattori: un po’ di suspense accattivante, qualche riflessione dotta ma opportunamente omogeneizzata a favore della digeribilità, qualche richiamo storico-tecnico di carattere didattico-divulgativo, qualche spunto interessante che rimane accenno, qualche commovente scatto fotografico innervato dalla memoria dell’esperienza: tutti elementi che attraggono e probabilmente inducono molti lettori a pensare di aver compiuto uno sforzo nobile e coinvolgente, toccando certe profondità senza troppa fatica. In questo senso, forse uno scaramantico punto di ri-partenza, ma la strada appare lunghissima e magari – come cantavano i Nomadi – noi non ci saremo.

LE COLPE DEI PADRI di Alessandro Perissinotto, Piemme 2013, 316 pagine, 17,50 euro

LA CITAZIONE

“Ti ricordi quanti furono i famosi licenziamenti Fiat nel 1969?”
Aveva tredici anni all’epoca e in casa sua non si parlava d’altro
“Sessantuno”
“Esatto. E non ti sei mai chiesto perchè sessantuno e non sessanta? O settanta? O cento?”
Non rispose e l’altro continuò.
“Per dare l’idea di un’azione chirurgica, per ribadire che erano stati rimossi tutti gli elementi che recavano disturbo e solo loro. Sessantuno, non uno di meno e non uno di più. La perfezione del sessantuno è più sottile, è riservata agli intenditori. Sessantuno è numero primo. Di più, con il cinquantanove costituisce una coppia di numeri primi gemelli, mistero nel mistero, rarità nella rarità. Non siamo molti ad aver colto, in quella scelta, un che di sublime”.

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