Film

IL VENTAGLIO SEGRETO

Memorizziamo subito due antiche espressioni cinesi: “laodong”, che nella contea di Jangyong identificava un fortissimo patto elettivo fra donne , unica forma affettiva per dare un senso a vite svuotate di ogni significato da oppressive regole di asservimento, compresa l’atroce pratica della fasciatura infantile dei piedi; e “nu shu”, scrittura segreta che le povere angariate ridotte a meri utensili vergavano tra le pieghe di ventagli di pregio, a testimonianza imperitura di un legame privatissimo generato dalla comune condizione. Argomento affascinante dalla parte delle donne, con quel tanto di purezza tipica dei grandi afflati ideali e quell’alone di eventuale morbosità feticistica , soltanto immaginabile in quanto ermeticamente taciuta. Aggiungiamo la suggestione esotica dell’orientalismo dei tempi andati e c’era tutto il materiale per un film di sicura presa , favorito da un copione già scodellato dal libro “Fiore di neve e il ventaglio segreto”, della giornalista e scrittrice sino americana Lisa See.

E invece no, perchè probabilmente in assenza del sufficiente talento, il regista Waine Wang pasticcia in un modo esasperante , duplicando l’antica coppia femminile al centro del romanzo , nonchè facendo goffissimi salti mortali per trovare un pretesto che giustifichi l’operazione, sotto forma di un manoscritto che va e viene maldestramente all’interno della vicenda. E, non sapendo trarre le giuste vibrazioni dalle lusinghe di una situazione lineare già data, cede supino alla moda del momento, e altera il già forzoso percorso parallelo delle quattro ragazze scorazzando anche avanti e indietro nelle loro storie, anteponendo o posponendo l’ordine cronologico dei singoli avvenimenti ; neppure sottraendosi al cattivo gusto drammaturgico di farle simbolicamente incontrare e rispecchiare le une nelle altre. Sicchè tutto viene non solo banalizzato e involgarito, ma anche reso tanto poco comprensibile da dover utilizzare dei titoli esplicativi sotto le differenti scene. In genere espediente tipico ( insieme all’utilizzo della voce narrante fuori campo che qui per fortuna ci viene risparmiata ) di registi che colmano le proprie lacune narrative mediante biechi calcoli commerciali, a favorire il mezzocalzume – e mai termine fu più pertinente – che prospera rigoglioso al giorno d’oggi.

Dunque un non luogo rurale agli inizi del secolo diciannovesimo, dove due bambine vengono massacrate e unite da fasciature crudeli in nome della bellezza di piedi che resteranno ridotti a sette centimetri di lunghezza per tutta la vita; rendendole merce appetibile per matrimoni affaristici ,nonchè prigioniere sottomesse di un’andatura da passero incerto, incapace di fuga. E poi, in parallelo, la Shanghai dei giorni nostri, con un’altra coppia di ragazze che si arma, contro i disguidi delle proprie esistenze adolescenti, del medesimo patto di sororalità privilegiata. Essendo gli effimeri nessi tra le due storie affidati alla parentela di una delle due con la antica ava protagonista della vicenda passata. Mentre il di lei ventaglio ereditato fa da tramite, insieme alla bozza di romanzo iniziato dalla pro pro pro nipote. Con quattro protagoniste diversamente truccate al prezzo di due sole attrici, ed un debolissimo confronto da romanzetto rosa fra la situazione antica – decisamente migliore grazie alla preesistenza del libro – e quella moderna, maldestramente inventata e sovrapposta di sana pianta. Ad esclusione dell’unica trovata intelligente del film, che sembra accomunare le torture fisiche di due secoli prima a quelle odierne dei plateau tacco 15. Per il resto, alla delicatezza silenziosa dei destini delle due vittime originarie, diversamente non amate e sacrificate, ma capaci di immolarsi in nome della loro affezione esclusiva , i tempi odierni sanno solo contrapporre tre minuti di un risibile e zompante Hugh Jackman, australiano che c’entra appunto come un canguro ; così il nome in cartellone è assicurato e tanto basta. E poi via di altre malaccorte improbabilità alternate, con qualche colorazione suggestiva qua e là, visto che oggi – budget permettendo – è difficile che anche i peggiori cioccolatini siano mal presentati sotto il profilo del packaging.

Che ci si addormenti o meno, data la lentezza soporifera dell’imbroglio, è irrilevante, perchè il risultato , la comprensibilità e la noia non cambiano. Comprensibilità ulteriormente minata da una curiosa e inutilmente sofisticata scelta di doppiaggio, con gli idiomi originali tradotti in sottotitoli quasi comici – in quanto spesso bianchi su sfondo bianco -e altri dialoghi rigorosamente in italiano.

Da ricordare una scena di dolore paterno tra la neve, che sconfina in un simbolico grafismo di sensibile efficacia visiva e qualche altro fotogramma , con costumi originali o silenzi dolenti per eccezione.

In tempi di calure torride e di conseguente rarefazione di pellicole interessanti, neanche il lusinghiero ventaglio del titolo può indurre lo spettatore a far buon viso a cattivo gioco. Al massimo ci si può compiacere per i propri liberi piedi, e per la scelta estetica di utilizzare da sempre solo scarpe rigorosamente senza tacco.

IL VENTAGLIO SEGRETO di Wayne Wang, Cina Usa 2011, durata 105 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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