GLI EQUILIBRISTI
Un lungo piano sequenza illustra la freddezza di un labirintico archivio di scaffali metallici. Ad animarlo per un attimo l’attività carnale di una coppia, in piedi in un angolo, tra l’urgenza e il “così fan tutti”. Una deviazione qualsiasi, senza coinvolgimenti, probabilmente per ovviare alla noia del pubblico impiego, ma che sarà in grado di segnare un padre di famiglia e precipitarlo attraverso le varie stazioni di una via crucis che è anche una discesa agli inferi. Complici un malinteso senso della monogamia che perseguita le coppie disincantate, ma mai lucidamente pensanti, del giorno d’oggi, e la crisi economica, che non aspetta altro che l’ultimo, fatale granello di sabbia per mandare all’aria un complicato ingranaggio di certezze materiali come affettive.
La moglie occasionalmente tradita è Barbara Bobulova, che finge di non essere nemmeno carina, mentre il marito è un bravo Valerio Mastrandrea, nei panni, spelacchiati ma pensosi e intimamente delicati, di Valerio Mastrandrea. Intorno, la loro confortevole casa piccolo borghese, i figli abituati a reputare ovvia e irrinunciabile qualsiasi esigenza superflua, la Roma indifferenziatamente umana e carognesca dei gironi e dei giri sempre più miserabili, fino alla completa “marocchinizzazione” del disgraziato compatriota. Che non riesce a sostenere i costi di una separazione e precipita in uno sperdimento angoscioso, per un malinteso senso di responsabilità e d’orgoglio. Con un finale che fa venir voglia di mandare tutti a quel paese, dopo quasi due ore sempre più melodrammatiche, in bilico tra la verità minacciosa della cronaca e la realtà immaginata da una fiction televisiva di Canale 5.
Intendiamoci, molti si identificheranno totalmente in una parabola attualissima che non ha niente di sbagliato o anche soltanto di fuori posto. E che passo passo resta incollata alle terga del protagonista con estrema diligenza, come in un tema liceale ben argomentato da un allievo studioso che pensa di rendere universale la realtà dei tempi facendo ricorso al simbolismo delle inquadrature. Infatti, mentre il montaggio si adegua ai ritmi lentissimi adottati dalla regia, le sequenze sono sempre frantumate da porte e saracinesche che si aprono e che si chiudono, da scale che, se salgono, sottolineano la fatica e se scendono mimano il precipizio. Con abbondanti rinforzi di sbarre, griglie, cancelli e ringhiere come prigioni, a suggerire la progressiva illibertà di una vita che, man mano, perde proprio quei punti di riferimento considerati duraturi perché scontati. Con il sommarsi dell’ennesimo “autunno caldo” all’ormai acclarato impoverimento del paese, è possibile che il film abbia la presa emotiva di un instant movie e riesca a giocare sulle paure nemmeno inconscie degli spettatori, enfatizzandole davanti ai loro occhi. E molti un tempo sicuri e spensierati cominciano a temere che quel che accade al vicino di casa e sullo schermo possa accadere anche a loro.
E’ quindi una pellicola destinata a piacere in quanto attuale, condivisibile, metodicamente illustrata, ben interpretata, nonché resa sufficientemente “artistica” dagli artificiosi accorgimenti sopra accennati. Ma da un punto di vista cinematografico non fa fare un minimo passo avanti al cinema italiano che, a parte alcuni grandissimi talenti, sembra non riuscire a schiodarsi dalla ripresa di un malinteso verismo verghiano in salsa televisiva, che ben poco ha da spartire con il neorealismo.
Basti pensare a quali spazi non didascalici si sarebbero aperti nell’adombrare diversamente il rapporto di coppia, e l’istituto matrimoniale che sempre più ingenuamente ritiene di definirlo, oppure i diversi legami tra genitori e figli mentre l’uno è ancora bambino e l’altra già adolescente. O, ancora meglio, se la felice intuizione sociale di un paese a lungo ritenuto ricco fosse stata poeticamente “cortocircuitata”, rendendo il protagonista un nuovo immigrato sul proprio suolo, fra veri ex immigrati ben più adattabili e quindi molto più forti.
Non è una tesi leghista, ma una semplice osservazione “darwiniana” per un prodotto, invece, ricattatorio che ha tutti gli ammennicoli al posto giusto, ma che di per sé esprime poco, lasciando allo spettatore il compito di avvolgerlo di personali rispondenze, a riempire dei vuoti che si presentano viceversa come troppo pieni di sottolineature, anche un po’ pedanti.
GLI EQUILIBRISTI di Ivano De Matteo, Italia 2012, durata 100 minuti