GLI AMORI FOLLI
Cosa c’è di più imbarazzante di dover spiegare e giustificare l’imbarazzo? E, per di più, con riferimento all’opera di un Maestro che viene trattato come se già fosse morto, visto che la critica ufficiale ha parlato di questo film senza riuscire a trattenere lacrime di adorante commozione? E noi che c’eravamo andati come quando si va per funghi, con nascoste speranze, ma palesi e scaramantici presentimenti! Di funghi non ne abbiamo trovato nemmeno uno, ma in compenso abbiamo riempito il panierino di punti interrogativi.
Quand’è che si è definitivamente vecchi? Quando si trovano decrepiti i propri coetanei? Oppure quando si smette di progettare, aggrappandosi alle abitudini? Oppure ancora quando continuiamo a spostare sempre più in là il temuto traguardo? O, se, fra tanti svantaggi, ci permettiamo e facciamo cose che mai avremmo osato in altre età? Spacciando il riprovevole, l’azzardato, lo sconveniente, l’erroneo, per ironico e divertente e divertito divertissement? Fermiamoci qui, perché ci sembra la risposta più calzante.
Il film inizia con una ardita metafora vegetale: in un’asfalto rugoso d’un grigio elefantino, si apre una crepa errabonda piena di fili d’erba. Che, durante tutto il percorso, inframezzeranno l’opera, diventando via via più rigogliosi, fino a invadere l’intero schermo. Non a caso il titolo originale del film è Les herbes folles.
Proseguiamo con il ritrovamento di un portafoglio da parte di un quasi settantenne, spacciato per cinquantenne in quanto avatar del regista. Che, pieno di rimpianti e di immaginazione come un ragazzo, ricama adolescenzialmente sulla proprietaria del perduto, fatale lacerto. Seguono andirivieni alla Gianna Nannini – ti telefono o no, ti telefono o no, io non cedo per prima… Lui è padre, nonno, marito felice, distratto e irascibile e voglioso d’altro come tutti i mariti felici. La moglie una che per ordinanza sembra una figlia comprensiva.
L’altra, una Sabine Azéma – moglie vera di Resnais, anche lei con trent’annni di meno – sfigurata da una cesta di capelli rossi crespi, apportatrice di dolore non solo in quanto dentista, ma anche perché reticente e dapprima ritrosa quando non indignata musa. Ma con la passione per il volo, come lui, quindi entrambi dotati della simbolica capacità di astrarsi e disperdersi in alto, fra nuvole parigine, ma molto simili, anche nell’accompagnamento musicale, ai cieli de La mia Africa.
Mentre queste manovre, che non perdoneremmo nemmeno a Moccia, dondolano e tentennano, l’impianto letterario del film (tratto dal romanzo L’incident di Christian Gailly) si appalesa in una voce leziosa fuori campo, che ci illustra i pensieri dei protagonisti. E qui vogliamo almeno sperare che sia una caduta clamorosa del doppiaggio italiano, affidato ad un finto Paolo Poli che imita caricaturalmente se stesso.
Intanto, sempre simbolicamente, à la Buñuel, vanno e vengono scarpe, bocche aperte, lettere e messaggi, ma tutti rigorosamente su carta e da telefono fisso. Non si sa e non ha importanza se l’attrazione fatale, come tutte le attrazioni, è solo un’idea covata dai protagonisti, e condivisa con gli altri adulti al seguito – la moglie di lui, l’amica di lei… – o se viceversa è reale come la gag della patta di lui lasciata aperta dopo una romantica minzione.
Ci si innalza alla fine in un cielo riparatore, cui segue o no schianto fatale. Perché ormai dubitare, anche di se stessi, è d’obbligo. Come se non bastasse, dopo la voce fuori porta, si sono intromessi a profusione cartigli, fiori che sbocciano, finti the end, battibecchi e malefatte simboleggianti le distonie fra innamorati, che se non litigassero non avrebbero niente da dirsi. Mentre singoli o doppi fantasmini si appalesano come dagherrotipi rotondi accanto ai protagonisti, guardando dritti in macchina, per mimare fisicamente, qualora non fossero comprensibili, i dialoghi immaginari a distanza fra i due disgraziati.
Non vogliamo infierire, anche su noi stessi, benché ormai ci si sia compromessi irrimediabilmente, ma non possiamo passare sotto silenzio un dubbio educativo-comportamentale: potremo farlo vedere ai minori, nell’epoca di Facebook, senza ritornare agli imbarazzi di cui sopra, visto che già i maestri dei padri e dei nonni, ancorché non visti, stanno sulle scatole per definizione? E cercare di rimediare procurandoci Hiroshima mon amour, L’anno scorso a Marienbad, Mio zio d’America? E superare poi – ma come? – l’ultimo scoglio, quello della visione obbligata della menzionata terna, senza ricorrere a minacce sgradevoli o a più machiavellici stratagemmi ricattatori? Fine per esaurimento degli interrogativi.
GLI AMORI FOLLI di Alain Resnais , Francia Italia 2009, durata 104 minuti