ANOTHER YEAR
Dopo Segreti e bugie e Il segreto di Vera Drake, il settantenne regista inglese Leigh ritorna con un film sulla gente qualunque, colta nel trascorrere di un anno. Un altro anno, uno dei tanti, uno qualsiasi, sottolineando lo scorrere del tempo che ci guarda vivere attraverso l’alternarsi delle stagioni. Questa volta, solo apparentemente, senza segreti, perché le chiacchiere che sostanziano il film sono quelle da riunioni, da cibo, da bevande, fra amici e conoscenti di vecchia data. Eppure, sin dall’inizio si comprende che si discorre d’altro per non parlare di sé, del proprio affondare come del proprio salvarsi.
Candidata agli Oscar 2011 per la miglior sceneggiatura originale, la pellicola si apre con una scena molto bella: una donna dimessa e ostinata ripresa in tutte le rughe di una desolata maturità, che non vuole guardarsi dentro perché tanto nulla può cambiare e che richiede al medico curante solo delle pastiglie per dormire e dimenticare, resistendo alla psicologa che cerca di farla parlare per aiutarla a scoprire la causa del disagio. Dunque, con la negazione e l’affermazione della parola, il tema è dato e, anche se si conclude con un funerale, si capisce che il film racconta, senza accadimenti particolari, della dificoltà di stare al mondo e del come non morire da vivi. Lasciando intravvedere come possibile soluzione l’esempio di Tom e Gerry, lui geologo e lei la psicologa dell’inizio, che vantano un sereno ed amoroso accordo trentennale e che perciò attraggono nella loro casa, come falene in cerca di luce, una serie di personaggi completamente soli. E sulla strada del’alcoolismo.
Così, tra un week end e l’altro, una raccolta di pomodori nell’orto, piatti colmi di cibi irriconoscibili e tante tazze e bicchieri, si svolge una commedia della parola dimessa che cercherebbe di assurgere a paradigma esistenziale, fra personaggi che non vorrebbero essere tali, ma solo persone qualsiasi. In una sorta di teatro pacato della verità fintovera, in cui il buonismo degli atti e delle espressioni è spesso smentito e rintuzzato dagli occhi. Ora complici, ammiccanti, comprensivi, ora giudicanti e insofferenti, ora disperati. Non succede quasi nulla e si dice molto senza dire quasi niente: l’automobile nuova, l’assicurazione, il lavoro, la pensione, gli innamoramenti e le sconfitte dei pochi giovani presenti. Con tutti i recitativi del ricevere e del mettere a proprio agio, che sono come il galateo da ascensore, in cui è d’obbligo pronunciare qualche cosa di metereologico.
Per ovviare agli schematismi dell’impianto e anche a una certa noia da inesorabile tè delle cinque, la regia si fa un punto di onore di insistere sulla qualunquità del tutto, soffermandosi con la macchina da presa sia sulla particolare non avvenenza degli attori che sui dettagli anche più minuti dell’ambientazione: grande cucina, mestoli e coltelli, piatteria varia, scialli e ciabatte, giardinetto, divano-rifugio da lacrime e da coccole e via discorrendo, nel senso proprio del termine. Come a dire allo spettatore: eccoci qui, questo sei anche tu. Ed è possibile che il gioco d’annessione dei felici pochi e degli infelici molti funzioni, perché il tutto è sia molto accurato che molto professionale. Nonché così intelligentemente e delicatamente banale da rendere quasi pensierosi.
Mentre, pur senza alterare la cifra del film, ci sarebbe piaciuto che questa coppia non diciamo senza temporali, ma senza nemmeno una fisiologica nuvoletta, risultasse almeno un po’ vampira, giusto per non sconfinare nello stucchevole. E che, attraverso la propria implicita quanto anonima autosufficienza, accogliesse i numerosi ospiti per rifulgere ancor più di luce propria, dimostrando come i vincenti abbiano spesso bisogno soprattutto dei perdenti per sentirsi veramente sicuri di sé. Nella vita vera succede continuamente, spesso in modo inconsapevole. Qui no. Ma forse sarebbe stata un’altra storia.
ANOTHER YEAR di Mike Leigh, Gran Bretagna 210, durata 129 minuti