TO THE WONDER
Agli uomini: se incontrate una flessuosa trentenne con figlia decenne, e non capite chi abbia dieci anni e chi trenta; se pensate che, al netto degli iniziali caprioleggiamenti (un saltello qui, tra primule e ovetti, e un saltello là, tra fango e spighe) l’affaire possa durare, mentre la frittata brucia e le valige aperte fungono da armadi, ebbene, vi sbagliate. Tanto più se lei giocherella sempre, non ha niente da fare, ridacchia spesso ma mormora incessantemente in sovraimpressione frasette francesi alla Liala. Se, poi, per consolarvi, vi arrapate per una bionda della vostra infanzia che alleva cavalli, due piccole perle operose ai lobi, e una bambina perduta con commento di San Paolo (Lettera ai Romani: tutto è comunque disposto per il meglio), tirate dritto. Se tornate infine con la prima, che continua a zampettare, ma si fa via via più attonita, pur insistendo nel giaculare tra sé e sé anche mentre vi tradisce, allora siete colpevolmente recidivi, e fate vostra la massima del pluricitato San Paolo, ma al contrario: meglio ardere che sposarsi.
Alle donne:se incrociate uno insinuantemente dotato come Ben Affleck, e vi accorgete che, essendo regista oltre che attore, palesemente si vergogna della parte, recitando incassato orsinamente nelle spalle, lasciate perdere: ha un mestiere ecologistico alla Erin Brockovich ma non lo esercita, preferendo campare d’aria, traslocare compulsivamente, bricolare, pescare, contemplare silente il panorama da plurime finestre, magari appioppandovi un ceffone perché l’aria intorno non ristagni troppo.
Agli spettatori: se incappate in un regista che vanifica il suo indubbio talento raccontando per belle immagini iconografiche, dalle foto del National Geographic alle citazioni pittoriche di Georgia O’Keeffe, Edward Hopper e, soprattutto, Andrew Wyeth ;se detto regista mischia incessantemente il sacro con il profano in una sorta di verbosa quanto ingenua filosofia panteistica, chiosando insistentemente ai margini di ogni fotogramma, nonché cercando di rendere pensosi anche i cartigli Perugina (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo); se, ancora, da una virtuosistica cartolina all’altra c’è anche un prete che passeggia tra gli indirizzi, interrogandosi in spagnolo non solo con esiti quasi comici, ma anche ben lontani dal dramma di un mestiere fatto per credere (lontanissimo dall’indimenticabile scarafaggio in tonaca di Graham Greene, Il potere e la gloria); se infine la noia vi attanaglia fin dall’inizio e, tra le frigide giravolte dei corpi, vi scontrate pure con qualche lemure, ippocampo o girino, beh, allora, bando ad ogni dubbio: state assistendo al sempre immutato film del ripetente Terrence Malick.
Presentato senza clamori al festival di Venezia dello scorso anno, To the wonder ricalca pedissequamente – in peggio – la magniloquente e talvolta abbacinante ma squilibrata formula di The tree of life . Solo che, trattandosi di un pensum sull’amore di coppia di presunta ispirazione bergmaniana (ma con un amplificatore teso ad esprimere lo sconcerto creaturale dell’universo in cui abitiamo, smarriti di meraviglia come di dolore), la variante consiste nel mescolare i tempi delle sequenze senza ricorrere tecnicamente al flash back, e nel mutuare dall’incomunicabilità di Antonioni una sorta di perenne catatonismo delle situazioni e delle persone. C’è un continuo e suggestivo spreco: dimore mal abitate e disadorne come anime senza risposta; gesti sospesi e insulsamente ripetitivi; individui che cercano una bussola, epperò si producono in frasi tipo “La vita è un sogno, e nei sogni non si può sbagliare”, oppure “Io sono la sperimentazione di me stessa”; immagini a doppio senso, che da un lato tentano di esemplificare metafisicamente la gaussiana dei sentimenti, mentre dall’altra provano a descrivere l’ineffabilità dell’universo,con il Dio di una Bibbia tutta americana che si intromette continuamente nel privato, senza un minimo di discrezione.
Non siamo aprioristicamente dei detrattori del Nostro, avendo, per esempio, apprezzato I giorni del cielo (1978). All’epoca, però, lo stile e i concetti erano funzionali alle intermittenze della narrazione, mentre qui avviene il contrario: la bellezza assurge a una maniera di gusto dubbio, perché insistita nella sua iconicità dichiaratamente allusiva, e la vicenda diventa un paradosso per smerciare un autodidattismo culturale tanto profetico quanto mal digerito, non dissimile dalla propaganda di certi imbonitori spirituali made in Usa. Con il massimo rispetto per il credo interiore di ciascuno che tuttavia, sotto l’aspetto filmico, ha la non trascurabile pecca di intorbidare le acque e di involgarire l’opera attraverso ridondanze ed eccessi. Si fa proseliti solo fra chi è già ben disposto, mentre l’ultimo Malick sembra escogitare di tutto per dividere sull’idea platonica di cinema, fino a coincidere con la caricatura di se stesso.
TO THE WONDER di Terrence Malick,Usa 2012, durata 112 minuti