Film

MAGNIFICA PRESENZA

Fingere vuol dire etimologicamente foggiare, nel senso primo di toccare, palpare; poi, per traslato, plasmare, rappresentare qualche cosa sotto una forma: da cui, per successiva metafora, anche il concetto di immaginare, di simulare. In Magnifica presenza il regista Ozpetek sembra voler declinare tutte le potenzialità significanti del verbo, riuscendo con mano affettuosa a modellare un racconto in grado di temperare il tragico con il bonario, il dolente con l’ironico, la contemporaneità quotidiana con la Storia. Usa garbatamente quell’afflato espansivo che trascorre in quasi tutti i suoi film più o meno riusciti, capaci comunque di con-prendere ogni volta i singoli (o i soli) all’interno di una comunità amichevole e confortante, secondo una sorta di convivialità esistenziale, che definisce appunto l’idea dell’umano stare insieme.

E insieme vivono infatti una compagnia di attori – quelli che “fingono” per mestiere – e il protagonista Pietro (Elio Germano) che di notte sforna cornetti di pasta sfoglia e di giorno aspirerebbe anche lui a calcare le scene, magari realizzando per soprammercato i propri spasimi di gay timido. Solo che gli attori occupano abusivamente la nuova casa in cui lui si è trasferito. La compagnia teatrale è scomparsa nel 1943 e loro sono morti, defunti a tal punto da appalesarsi esclusivamente all’ospite pagante, quando tutti gli altri non sono in grado di vederli. Da questa duplice costrizione (dovuta al fatto che gli attori continuano a pensare di doversi nascondere mentre Pietro non può permettersi un’altra casa così lussuosa ad un prezzo d’occasione) si dipanano i vari episodi, ora ironici, ora malinconici, fino al disvelamento drammatico e alla reciproca presa di coscienza del proprio destino.

Di fantomatiche presenze che ritornano (o che non se ne vogliono andare), il cinema abbonda su più versanti, dall’orrido al consolatorio: l’elenco sarebbe sterminato. Eppure, in questo caso, Ozpetek si distingue svuotando il soprannaturale di ogni contenuto inquietante o misterioso per raccontarci di vite che si toccano e si riconoscono, a dispetto del tempo che non lo consentirebbe. Intanto le prove giornaliere che il protagonista affronta si mescolano
con quelle paludate degli attori, sempre in spolvero da luci di una ribalta che fu, ma con una naturalezza e una semplicità che annullano ogni accenno claustrofobico e che, man mano che il film si snoda, riescono pure ad assecondare il lato romanzesco del plot, senza per questo risultare forzate.

Non un’operazione facile, anzi. Una sceneggiatura sempre sul filo del rasoio e che tuttavia riesce a cavarsela egregiamente: grazie anche ad una notevole prova degli attori – nessuno escluso – ad una nostalgica e ben calibrata colonna sonora, ad un ottimo montaggio, ad una sensibilità registica che assembla spunti e contrappunti secondo un collage di elementi eterogenei, tenuti insieme con rigore da un compassionevole sentire. Quella che è poi la vera cifra del film, continuamente rintoccata nei gesti che si sfiorano, nelle mani che si stringono, negli abbracci agiti o negati, negli occhi che guardano o che vengono guardati, a ricomporre e dare un significato alle forme rappresentate.

Le reminiscenze sono molte, da Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999) a The others (Alejandro Amenàbar, 2001) con larvati accenni felliniani (vedi i teatranti anni ’40, la strana suburra che aiuta a risolvere il mistero, il finale collettivo…), ma rivisitati in un modo originale che trae le sue radici da uno dei migliori film del regista, ossia La finestra di fronte (2003). Con un sovrappiù di delicatezza nelle piccole trovate al contorno (la morfologia della casa, il doppio provino, il gioco delle figurine con l’introvabile Garibaldi al posto del feroce Saladino della collezione Buitoni-Perugina d’anteguerra, i tormenti della checca navigata e della cugina navigante) nonché nei dialoghi concisi e funzionali alla narrazione.

Una sfida temeraria e riuscita a cui ci siamo recati gravidi di sospetti, non in funzione delle recensioni (che non si leggono mai preventivamente), ma piuttosto per colpa dei trailer. Viceversa la sfida è stata vinta, se solo ci si abbandona al gioco tra il serio e l’inventivo, con un tocco di troppo nel deus ex machina impersonato da Anna Proclemer e nel finale che si mischia ai titoli di coda, ad ammonire inutilmente sul concetto, anche ludico, di finzione. Mentre non è da recita lo sguardo che è in grado di soffermarsi e dare dignità all’altro, perché la magnifica presenza è quella di chi con animo sgombro accetta le proprie ossessioni e consente alle tracce del passato di tornare a rappresentarsi, per trovare senso e pacificazione.

MAGNIFICA PRESENZA di Ferzan Ozpetek, Italia 2012 , durata 102 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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