LE DOMANDE DEL PITBULL
Prima domanda : esiste qualche cosa di più squallido di uno squallido bar chiuso ? Sì , il retro di uno squallido bar chiuso di Brooklyn che ricicla abitualmente piccole partite di denaro sporco , in attesa che un’organizzazione mafiosa gli assegni per turnazione una serata d’onore , in cui i soldi illeciti da occultare in cassaforte siano molti , ma molti di più . Operazione che è non solo l’elemento di interesse malavitoso del film , ma anche l’innesco delle vicende che gli girano intorno . James Gandolfini , qui alla sua ultima apparizione cinematografica , è per tutti il cugino Marv , ex padrone di un’attività che prima gli conferiva dignità e rispetto . Spodestato dalla criminalità cecena che lo utilizza come prestanome gerente , si avvale dell’aiuto del giovane barman Bob , che va spesso in chiesa , è compassionevole nei confronti dei beoni insolventi , adotta suo malgrado un cucciolo di pitbull massacrato da un padrone schizofrenico , si fa con discrezione la sua solitaria vita e sembra volenterosamente distaccato , se non immune , dall’ambiente criminale in cui opera con zelo e senso di responsabilità . Intanto il cane diventa oggetto di contesa , una graziosamente aspra cameriera anche lei impelagata lo aiuta nell’allevare l’inoffensiva creatura , le brame di ognuno e i doppi giochi della collettività si dipanano e poi si addensano a drammatizzare crudamente la storia , fino ad un macabro the end che non scolora propriamente dal rosso al rosa , ma genera almeno qualche speranza , perchè i superstiti hanno a loro volta molto da dimenticare e da ricostruire .
Seconda domanda : il pitbull appartiene ad una razza condannata geneticamente alla pericolosità sociale , oppure è l’ambiente in cui viene cresciuto che lo modifica determinandone l’eventuale ferocia ? Benchè per gli animalisti non ci siano dubbi , l’interrogativo non è retorico , così come non lo è la presenza della bestia , qui considerata non tanto come un’ accattivante mascotte , quanto come paradigma del bene e del male in natura e nel costume . Perchè , come si andrà progressivamente scoprendo , se i gangster artigianali rappresentano per definizione la malvagità senza sconti nè ombreggiature , gli altri non sono da meno : chi per la brama e la debolezza di voler contare , chi per automatico adeguamento ad un brodo di coltura senza alternative , chi per legittima difesa , pur avendo una precipua contezza dei discrimini morali . Insomma , una lotta all’ultimo sangue e al tempo stesso l’emblema del solito siamo tutti vittime e carnefici , oppure anche i bersagli hanno le loro colpe , se non altro perchè non riescono ad immaginare delle alternative esistenziali alle gabbie deterministiche del caso o dell’esempio , con relativi corollari impliciti sulla libertà di scelta .
Terza domanda : che cos’è un classico ? Per la moda , è un elemento che non passa , ossia la trascende nel suo ondivago bisogno di finte o vere cesure nei confronti della tradizione consolidata , sempre portabile e sempre attualizzabile , magari con l’ausilio di qualche orpello accessorio . E The drop è per l’appunto un trench , un cardigan , un doppiopetto della narrazione drammaturgica di genere noir . Senza i risvolti del thriller e del poliziesco , tutto quello che compare sullo schermo è già stato sia portato che visto . Ma la confezione è dignitosa , se non sartoriale , e i dettagli aggiungono un tocco discreto di rilucidata inossidabilità . Si comincia con l’europeizzazione di un’America poco autoctona , perchè il gioco è fra oriundi o emigrati . Si prosegue con il tratteggio dei caratteri , somaticamente attento alla visualizzazione degli animi più che all’interpretazione degli attori : il cugino Marv è una maschera di gonfia consunzione fra casa e bottega , fra detti e fatti ; il giovane Bob l’atona impassibilità di uno che vorrebbe star tranquillo , ma all’occasione può sfoderare l’arma vincente della sorpresa ; lo schizofrenico Henry ha gli occhietti ravvicinati del dissociato mitomane , la polizia è latina , investiga sapendo già quasi tutto senza potere o volere approfondire e provare alcunchè . Gli ambienti sono curati nella loro disadorna mediocrità , a sottolineare che anche la spietatezza fa colazione al mattino e lascia le tazze nel lavello . Il bar è un luogo di oscuri oblii come di brindisi per bande eccetera . Tutto già noto , senza slanci , ma nemmeno senza troppa noia , perchè il modello è meccanicistico e anche un po’ scontato , ma per fortuna non sfiora la caricatura en travesti e non indugia troppo nei punti usurati .
Quarta domanda : perchè questo genere di lisa classicità rievoca comunque un marchio preciso , seppur in sordina ? Perchè lo sceneggiatore è Dennis Lehane , popolare talento del thriller americano dai cui romanzi sono stati tratti Mystic river – 2001 – Gone baby gone – 2007 – Shutter Island – 2010 . Anche i suoi due ultimi libri – Quello era l’anno e La legge della notte – variano appena le caratteristiche ormai consolidate della firma : conoscenza tecnica degli ambienti e dei mestieri , ambiguità caratteriologiche , paesaggi dettagliati eppure piatti come fondali , trame che non riservano grandi sorprese , anche perchè in genere il lettore – e in questo caso lo spettatore – è messo al corrente di quanto i protagonisti viceversa reciprocamente non sanno . Idem per The drop , cui la regia del quarantatreenne belga Roskam non aggiunge granchè , riprendendo i motivi di colpa solitudine dolore di Bullhead – 2011 . Promettente film d’esordio , qui annacquato da un copione sommario , che tira via senza infamia ma senza convinzione . E pensare che gli ingredienti d’atmosfera per fare molto meglio c’erano tutti e invece i due talenti sembrano essersi neutralizzati a vicenda . Il cane , però , è ignaro e come sempre bellissimo .
THE DROP – CHI E’ SENZA COLPA di Michael R . Roskam , Usa 2014 , durata 106 minuti