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LA FATTORIA DEI GELSOMINI

Questa è una recensione d’amore letterario, espressamente dedicata ai maschi, in particolare quelli disegnati sui metro.
Perchè vi si parla di educazione e diseducazione sentimentale e sessuale. Non che le femmine non ne possano a loro volta trarre vantaggio, ma è che comunque sono in genere più portate all’analisi introspettiva delle emozioni. E quindi anche a gradire un titolo che profuma di quote rosa, viceversa magari schivato dai lettori proprio per la stessa motivazione. Invece Elisabeth von Arnim è, come tutti i veri talenti, una grande scrittrice ambosessi, che non ha nulla da invidiare a quell’altra più celebre epigona di Henry James, che risponde al nome di Edith Warthon. Entrambe coetanee, entrambe al centro di una vita mondana e culturale ai vertici della propria epoca, che si situa tra l’ultimo quarto dell’ottocento e l’inizio della seconda guerra mondiale.

Nata in Australia da una famiglia abbiente, Elisabeth è cugina di Catherine Mansfield, moglie del conte von Arnim, a sua volta cugino del poeta romantico Achim. E poi amica di E.M.Forster, di Hugh Walpole, nonchè amante di H.G.Wells, che la definì la donna più intelligente della sua epoca; infine sposa del conte Russell, fratello del più celebre Bertrand.
Rispetto a questo comune osservatorio privilegiato, Elisabeth ha tuttavia un vantaggio:la minore disponibilità economica, e i conseguenti lunghi periodi di alienazione mondana, nell’isolamento della campagna prussiana.
Credenziali, qualità personali e disponibilità alla meditazione – nonostante i cinque figli – che non potevano non dare i loro frutti, sotto forma di ventidue romanzi. Quotatissimi lei vivente, poi caduti nel dimenticatoio. Riportati in auge da alcune fortunate trasposizioni cinematografiche, fino al benemerito progetto di Bollati Boringhieri di tradurne in italiano l’opera omnia. Quasi sempre incantevole, anche nei romanzi meno riusciti.E , come quelli della Warthon, spesso – ma non solo – centrati sul rapporto fra la singola persona e il suo gruppo sociale di appartenenza o di auspicato approdo, colti nel momento sia di tardivo ancoramento come di rottura delle convenzioni, con particolare riferimento all’emancipazione femminile.
Ma con un maggior sapore di verità e di esperienza diretta in Elisabeth, un più fresco e pervasivo gusto dell’ironia, e una più sapiente costanza qualitativa di risultati. Secondo una personalissima cifra sempre immediatamente riconoscibile, che talvolta la vede anche autobiograficamente protagonista, nell’isolamento di una feconda solitudine, soccorsa dalle bellezze di una natura partecipe.

Elementi, questi ultimi, che si trovano in qualche modo compresenti anche in questo romanzo appena pubblicato, che si apre su di un lungo week end affollato di ospiti illustri nel superbo castello di Shillerton. Dove regna incontrastata l’affascinante, ricchissima, distaccata lady Daisy Midhurts. Innalzando così, per il solo fatto di accoglierli alla sua mensa, il valore sociale di tutti gli altri. Ma l’infelice presenza dell’uvaspina, sorprendentemente cucinata in tutte le possibili forme, comincia a far serpeggiare borborigmi e a disseminare malumori. Nella androgina, sportiva bellezza della di lei modernissima figlia “con le unghie che sembrano rimproveri e i vestiti sermoni”. Presso l’azzimata coetanea Rosie, piccola deliziosa parvenue promossa ai fasti della nobiltà da uno sciagurato matrimonio; concupita da tutti, anche se gli uomini non possono fare gran cosa con una donna che, non appena s’infiammano, risponde invariabilmente:”Scusate , avete detto?”costringendoli a ripetere. Nello stomaco come nell’animo di Mr.Torrens, pari d’Inghilterra, quindi membro della camera dei lord, diviso fra la naturale, quasi automatica propensione alla voluttà, e le regole di un’austera educazione turbata dalla calvizie. Presso Andrew Leigh, amministratore dei beni di famiglia, che prenderà una sola volta il taxi,”perchè un uomo non può andare incontro al suo destino a bordo di un omnibus”. Insomma qualcosa non funziona….E non bastano le note del Tristano ed Isotta che irrompono pomeridiane e si dilatano da una barca sul fiume ( in un pezzo che sembra scritto da una Virginia Woolf meno severa ) a placare gli animi. Qualche cosa è successo. E questo qualche cosa è una verità che verrà prima sussurrata, poi affermata, poi dubitata , poi negata , fino a rivelarsi per quello che era : la verità. Perchè dal lento, indugiante , largo abbraccio sottotono della prima grande ambientazione ( in cui si presentano i personaggi e i loro pensieri, ronzanti fra quello che si può dire e quello che si deve celare) si passerà ad una fanatica partita a scacchi ed ad una innocua frase di buona volontà, pronunciata per sbaglio. Che restringerà all’improvviso la struttura del romanzo in un cunicolo di disperata mortificazione, per riallargarlo poi alla fattoria del titolo, nelle campagne vicino a Grasse. In cui si perpetreranno dei ricatti che diventeranno riscatti. Secondo una sceneggiatura quasi teatrale di porte che si aprono e si chiudono alla Feydeau, e che viceversa, pur nell’umorismo dei personaggi e delle descrizioni di impronta trollopiana, assumeranno la valenza simbolica di una presa di coscienza, ribaltando definitivamente i destini in gioco.

Ma non si pensi ad un romanzo “costruito” intorno ai feticci di una nobiltà per fanciulle sognanti. Tutto ha il sapore della testimonianza vera, della vita vissuta, e si capisce che la realtà è distorta appena quel tanto che basta per essere accolta dalla pagina. Complice una testimone d’eccezione che fotografa i personaggi – formidabile la madre di Rosie – attraverso delle personalissime modalità di sviluppo della pellicola, trascorrendo dagli uni agli altri come un’ape mellifera, che ci consente di vederli nella carne come nello spirito, in un continuo gioco di rifrazioni. Indagando perciò sui sentimenti, sul sesso, sulla bellezza, sul denaro, sulla giovinezza e la maturità, sui valori, sui costumi, tutti colti in un momento epocale di profonda trasformazione. Secondo una felice, si potrebbe dire istintiva vis drammaturgica, accompagnata da un profondo e delicato modo di scrivere, che ha il dono della sintesi gnomica. In un’epoca che coltivava ancora l’arte del dialogo, di cui si hanno continui , sapidi esempi. Sì che da tante frasi messe in fila si potrebbero ricavare braccialetti colorati di umana saggezza ornamentale ed esistenziale. Perchè Elisabeth gioca alla romanziera , ma vive quello che dice, e sa come dirlo, appartenendo a quegli scrittori privilegiati che amano i propri personaggi, anche quando li trafiggono con uno spillo per la loro umanissima, magari mondana , collezione di coleotteri. Quello che racconta così piacevolmente ancora lo riscontriamo nell’esperienza quotidiana . Meno incantato, più disadorno, ma altrettanto vero, perchè universalmente riconoscibile – e psicanaliticamente utile – ancora oggi. Soprattutto ad entrambi i sessi , fatti per continuare a rincorrersi e a ripetersi nell’ eterno gioco biologico – affettivo, coattivamente alimentato dalle misteriose variabili del reciproco , affascinante fraintendersi…Carissima e valente Elisabeth.

LA FATTORIA DEI GELSOMINI di Elisabeth von Arnim, 1934, Bollati Boringhieri 2011,313 pagine, 17,50 euro.

CONSIGLIATI, da leggere o rileggere:

Elisabeth von Arnim: Mr.Skeffington, Un incantevole aprile, Un’estate da sola, Elisabeth a Rugen, La moglie del pastore, Il padre, Vi presento Sally

Edith Warthon: L’età dell’innocenza, La casa della gioia

Anthony Trollope:Le torri di Barchester , le cronache del Barsetshire , le Pallisar series e tutti gli altri romamzi editi sinora da Sellerio

Virginia Woolf: Gita al faro, La signora Dalloway

E, sempre, tutto quanto scritto da Henry James

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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