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IL SENSO DI UNA FINE

Nel 1984 usciva Il pappagallo di Flaubert: un volumetto sorprendente, raffinatamente eccentrico (ma nitidamente sorvegliato e lineare, dalla prima all’ultima pagina) in cui uno studioso innamorato dello scrittore francese abbozzava una sorta di sovversiva biografia, in concorrenza, anzi, addirittura “contro” lo stesso autore del romanzo.

A distanza di molti anni, Julian Barnes riscopre la stato di grazia di quel suo folgorante libro, dopo prove meno convincenti. E lo fa seguendo un percorso esattamente opposto, ossia mettendo in scena un protagonista narrante che viceversa crede di mantenere la barra di una ragionata “medietà” rispetto a tutte le possibili devianze avventurose che l’esistenza può offrire.

La narrazione dei fatti è suddivisa in due parti: la sintesi di una vita secondo la definizione che un personaggio chiave dà della storia con la S maiuscola (“La Storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano l’inadeguatezza della documentazione”) e un improvviso, inaspettato richiamo che giunge dal passato – e che obbliga a riconsiderare sia la definizione che la sintesi.
Ma della trama e dei personaggi non diremo altro: innanzitutto per spirito di contraddizione rispetto alla imperante voga critica riassuntiva e, a maggior ragione, perché questo libro è molto meglio di un giallo intrigante, benché lontanissimo – finalmente!- dalla dispoticità dominante del romanzo di genere.

Ci preme viceversa accennare almeno ad alcuni degli elementi che lo sostanziano: la dimostrazione che la vita non promuove per merito; la differenza tra gioventù e vecchiaia, che per i giovani consiste nell’inventare un futuro diverso per se stessi, mentre i vecchi s’ingegnano ad escogitare un passato diverso per gli altri; l’evidenza che il ricordo aggiunge al tempo trascorso piume o pizzi indebiti, e lava macchie di colpa o di rimorso non tanto per il conforto dell’autoinganno assolutorio, quanto per fornire un non-senso compiuto ad un’avventura sempre poco eroica o comunque scarsamente significante. Infine la teoria matematica del vivere, in cui a forza di addizioni e sottrazioni – ma anche di moltiplicazioni e divisioni – alla fine rimane comunque il dubbio se si sia proceduto per vera maturazione o per mero accumulo…

Intanto sullo sfondo si muovono donne dai contorni chiari e donne di mistero, giovani che devono aspettare gli anni settanta per poter iniziare a vivere secondo i sessanta oppure che rifiutano tragicamente di farlo, studenti che pensano di prefigurarsi i dolori della maturità, ma non riescono ad immaginare che consisterà prevalentemente nel guardarsi indietro. Relazioni come interminabili banchetti, che iniziano invariabilmente con il dessert, e figli che sembrano crescere troppo in fretta, mentre è l’età dei padri a fare scorrere l’orologio più velocemente.
Insomma temi che riguardano tutti nei vari stadi dell’esistenza, ma espressi così concisamente e in modo talmente ingegnoso da fornire chiarezze in merito a idee o sensazioni che talvolta si percepiscono solo come un ronzìo, e che viceversa qui trovano la loro puntuale epifania grazie ad un incedere illuminato e coinvolgente.

La costruzione narrativa – tra quotidianità e melodramma – è sapiente pur senza la benché minima forzatura e si avvale di una limpida, pacatissima capacità espressiva che sa trascolorare dai registri dell’ironia, dell’umorismo, del dramma a quelli dell’acume logico e sentimentale, fino all’aforisma. Senza la pretesa della sperimentalità e dell’innovazione, a tentare di tracciare sentieri alternativi, bensì secondo un concetto di sottile, meditato classicismo esente da ibridazioni spurie o da civetterie narcisistiche – se si esclude un lievissimo cedimento ai vezzi stilistici della contemporaneità: il coinvolgimento fittizio del lettore tramite piccoli interrogativi fintamente colloquiali. Intercalare che imperversa in letteratura e sulla rete in forma sempre uguale, tra l’informal-ironico-discorsivo, a simular complicità apocrife e freschezze gioviali che probabilmente celano il timore di una non comprensione o di un eccesso di volatilità dell’attenzione da parte di chi legge.

Ma è l’unica , tenuissima sbavatura di un breve romanzo affascinante, che si legge con l’ansia di introiettarne tutte le verità e le disvelazioni, ma anche con il rimpianto anticipato del progressivo assottigliarsi della pagine. Un po’, appunto, come succede nella vita, man mano che la si percorre.

IL SENSO DI UNA FINE di Julian Barnes, Einaudi 2012, 150 pagine, 17,50 euro

Vincitore del MAN BOOKER PRIZE 2011

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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