Libri

DODICESIMO BOUQUET

RITORNA di Samuel Benchetrit,Neri Pozza 2019, 238 pagine

Chi ama il cinema, e non può esimersi dagli avvenimenti al contorno, conosce Samuel Benchetrit almeno come regista de Il condominio dei cuori infranti, tratto dal suo libro Cronache dell’Asfalto; e sa che ha appena impalmato l’ex moglie di Johnny Depp, Vanessa Paradis. Di modeste origini ebraico-marocchine e di approssimati studi giovanili, Benchetrit è un artigiano riflessivo e irridente sia delle parole che delle  immagini, volte a dissezionare le sconfitte della  modernità per stanare i  residui della speranza. Secondo associazioni narrative che sembrano nascere casualmente, mentre tutto è invece calcolato con una malinconica e buffa svagatezza, densa di rimandi culturali sottotraccia.

Non fa eccezione il suo ultimo romanzo, dove uno scrittore quasi cinquantenne, che sembra aver rinunciato a scrivere, si trascina tra molti bicchieri, parecchie sigarette e innumerevoli propositi di riscatto mentre un’ex moglie lo assilla, una portinaia lo disprezza, un editore lo incalza, un funzionario del fisco lo perseguita, un questuante lo inganna, un rivale letterario lo umilia , Amazon lo tradisce e il suo primo titolo è definitivamente al macero. Partito l’amatissimo figlio per un lontano viaggio, rimane solo, alle prese con un improbabile progetto su Plinio il Vecchio, considerato benevolmente solo da un’anatra e da un’infermiera romanticamente silente. Nonché assillato lungo l’intero libro da un indovinello la cui soluzione, come La lettera rubata, è sotto gli occhi di tutti fin dall’inizio.

Ogni letteratura alta, media o bassa che sia ha sfruttato sino all’usura l’angoscia del calo di ispirazione. Eppure, grazie al suo periodare disossato e ai suoi dialoghi vagamente surreali, Benchetrit riesce a volgerla in un punto di forza, mettendo sotto la lente un disarmato ingenuo, non sprovveduto in quanto illetterato, ma tale perché poeta, mischiando le carte tra intellettuali e uomini qualunque, mercenari della carriera e volontari della vita. Una grazia persistente muove i caratteri e gli eventi, illuminandoli criticamente con una compassione di cui beneficia anche il lettore, ora indignato, ora commosso, sempre comunque divertito. Si tratta di una forma particolare di fascino che, per vie misteriose, attenua i difetti compositivi, rendendo empatici i temi leggeri e ariosi quelli pesanti, secondo un intrattenimento destinato a durare nella memoria con un suo piccolo, ribelle ed affettuoso afflato.

Un tempo si sarebbe concluso menzionando uno spirito “tipicamente francese”, in realtà mai circostanziato. Anche perché il protagonista vede gli stessi nostri orribili spettacoli televisivi, dilungandosi sul format internazionale Quattro matrimoni. E, a tale proposito, si potrebbe adombrare un parallelo, se non un indovinello. A quale libro italiano attualmente in classifica è accostabile Ritorna? Sicuramente a Le cose che bruciano di Michele Serra, che spicca rispetto alla garbata didattica de La versione di Fenoglio di Gianrico Carofiglio (invece un notevole romanzo era L’estate fredda), surclassa l’onnipresente e venerando Andrea Camilleri, sbaraglia l’acuto , spiritoso Alessandro Robecchi e l’intrigante Maurizio De Giovanni che da un po’ di tempo è la maniera di se stesso; per non tacere della deludente prova da rotocalco patinato di Marco Missiroli, dopo il valido Atti osceni in luogo privato. Insomma, un mercato dei gusti da cui Michele Serra si distanzia nobilmente, anche se il fatto di essere noto come giornalista forse non lo avvantaggia come scrittore. Basterebbe pensare a Gli sdraiati (poi annacquato al cinema) ma, soprattutto, a Cerimonie, una delle migliori raccolte di racconti italiani degli ultimi venti anni. Però sarebbe un altro discorso.

PIU’ DONNE CHE UOMINI di Ivy Compton Burnett,Fazi 2019, 260 pagine

Nel 1971 usciva Sessanta posizioni di Alberto Arbasino, uno dei più vivaci ed illuminanti testi di critica letteraria in cui, con il solito svagatissimo ed eclettico rigore, si collazionavano ritratti di autori ancora poco noti al pubblico italiano, fra cui, appunto, Ivy Compton Burnett, la Grande Signorina. Nata alla fine dell’ottocento già col nastrino fra i capelli e morta con lo stesso nastrino intorno alla metà del novecento. A testimoniare una vita racchiusa dentro un perimetro solitario, focalizzata frugalmente e caparbiamente sempre sullo stesso libro, benché i suoi titoli siano una ventina. Tutti straniati e perfidi come un agguato.

Difficile capire perché l’editore Fazi, nella sua meritoria rivisitazione di scrittrici famose, abbia scelto un suo testo. Ancora più problematico immaginare perché sia stato nuovamente tradotto proprio Più donne che uomini (Longanesi, 1950 e Guanda 1994) rispetto ad alcuni capolavori : Fratelli e sorelle, Una famiglia e un’eredità, Genitori e figli, Servo e serva ,Madre e figlio, Un dio e i suoi doni. Ma in fondo e’ un titolo che può’ fungere da cartina di tornasole, essendo ancora oggi una firma talmente rarefatta e splendidamente artificiosa da rappresentare sia la modernità che la post modernità, per palati che apprezzino, nell’ordine: la tragedia greca, il cannibalismo di Thomas Hobbes, l’umorismo di William Congreve, la scarnificazione di Jane Austen, Sigmund Freud e gli schemi enigmistici, Agatha Christie, l’arte concettuale e i tè delle cinque. Rinunciando inoltre a qualsiasi intreccio diretto, ambientazione o suppellettile , sussistendo al massimo qualche biblioteca e qualche camino come unica cornice all’onnipresente rituale dei dialoghi. Mentre gli omicidi, gli inganni, gli amori omosessuali e gli incesti si sprecano, ma sempre dietro a quelle tende che pure non compaiono mai, non esistendo nè la morale nè la società nè le emozioni.

Anche i caratteri e le sembianze dei personaggi sono sempre tracciati dalle loro parole e della protagonista Josephine Napier sappiamo solo che è alta e imperiosa, con il culto del dovere e del sacrificio per gli altri. Dirige un avviato collegio femminile, ha un marito, un figlio adottivo che è in realtà figlio del fratello, a sua volta amante ventennale dell’unico insegnante maschio. Finchè viene raggiunta da un’antica conoscente con figlia al seguito, e ci saranno tre funerali , due matrimoni e un po’ di cambi d’abito, mentre il coro delle educatrici chiosa da lontano, presentate in fila l’una dopo l’altra come i dieci piccoli indiani.

L’unità di azione e di luogo è rispettata, mentre l’elemento tempo scorre e riaffiora secondo modalità da romanzo d’appendice, essendo sia l’incredibile che lo straordinario ridotti alle abitudini del giorno dopo giorno. Ognuno parla e risponde, tutti con lo stesso tono e con la stessa voce, e il dichiarato è talvolta intenzione, talora menzogna o occultamento, talaltra disvelamento oppure criptica allusione a eventi ignorati dal lettore. Ogni famiglia ha i suoi codici, e bisogna avere orecchio o rileggere due volte la stessa frase per appropriarsi di incastri , di sfumature e di ironie che rispondono ad una sublime forma di concentrazione e di sintesi.

Nel caso di questo titolo ne vale la pena solo a metà, ma gli altri sopra citati sono da leggersi tutti, salvo che non ci si ritragga già da questo. Con la Grande Signorina non esistono mezze misure e anche se i contenuti non sono più inammissibili, il timbro misterioso della sua estrema diversità intellettuale ed espressiva rimane intatto, ma esige un’empatia naturale , oltre all’attenzione , alla pazienza e ad una certa dimestichezza con le lettere.

GLADIOLO ROSSO di Chaime Soutine, 1919

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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