Libri

DICIOTTESIMO BOUQUET

LA MORTE DI BUNNY MUNRO di Nick Cave , Feltrinelli 2009, 261 pagine

Che cosa sarebbe la letteratura senza la metafora? E come riusciremmo a spiegare una cosa, una sensazione, una persona anomala, che ci sfuggono, senza i paragoni? A vent’anni dal suo primo romanzo E l’asina vide l’angelo, Nick Cave continua a scrivere, ma in questo caso non canzoni, che “gli costano ognuna più di un parto”, bensì il suo riuscitissimo – e per lui facilmente felice – secondo libro, piazzandosi ben oltre e ben sopra le sue già notevoli qualità di celebre musicista. Come ne La strada di Corman Mc Carthy, siamo compagni di avventura del breve tragitto di un padre e un figlio ragazzino. Ma l’apocalisse che devono affrontare non è fatta di silenzi fantascientifici e di mondi spettrali, bensì di una quotidianità che ha i colori accesi e al tempo stesso esagerati dei tubi al neon, delle bibite estive, delle magliette e dei lecca lecca anni 60. Colori di plastica, ispirati dalla natura per essere stravolti. Colori di una quotidianità allucinata, vuoi perché tale in assoluto, come ultimo sussulto prima della fine dei mondi, vuoi perchè vista con gli occhi di un uomo ossessionato dal sesso e di fatto alcolizzato, che tenterebbe di campare facendo l’improbabile rappresentante di prodotti di bellezza per signore. Come invitare un ruminante a pascolare, anche se i suoi desideri più artisticamente ispirati sono incarnati da Kilye Minogue e da Avril Lavigne, anzi da una loro precisa parte anatomica. Stretti tra una fine ed una fine, siamo dentro un libro che impasta, stinge e compenetra vitalità e dolore, sfide e paure, incoscienze e consapevolezze, cinismo e umorismo e tenerezza, secondo le insondabili rotondità di scrittura tridimensionale tipiche delle scazzottate di John Lansdale. E con la capacità di inventare e dettagliare le persone e le anime mediante piccoli tocchi ripetitivi discendenti dai fratelli Cohen. E potremmo continuare con i paragoni, per un libro che si può più bere o ballare o piangere, che leggere e descrivere. E, se avesse scritto di più, potremmo dire al ritmo originale e dunque inconfondibile di Nick Cave.

SOTTO UN CIELO CREMISI-Vanilla Ride-di Joe R.Lansdale, Fanucci Editore 2009, 283 pagine

Dell’autore abbiamo già letto Il mambo degli orsi, Rumble tumble, In fondo alla palude .Ha scritto più di 200 racconti e una ventina di romanzi, che si dividono in altri, tipo il ciclo del drive in e il ciclo di Leonard e Hap. Non ha ancora sessant’anni ed è un tipico prodotto americano da esportazione, come tutti i protagonisti dei film di supereroi. Fisicaccio sfrontato, autodidatta visionario dai mille lavori, esperto e praticante di un elevato numero di arti marziali, democraticamente schierato, noto e di successo, vincitore di moltissimi premi, e apprezzato da un pubblico variegato, tendente al sofisticato. Il suo straordinario punto di forza è il linguaggio e la sua strutturazione. Qualsiasi cosa ci narri, Lansdale riesce ad imprimere ai pensieri e alle azioni lo stesso turgore, la stessa velocità tridimensionale, la stessa naturalistica e al tempo stesso fumettistica fisicità, come se ad operare fosse un Tarantino che disegna in torsione e in affollamento come Jacovitti. Ma nell’agitarsi del pulp si infilano i dialoghi: ironici, originali, precisissimi, quasi un musicale contrappunto alle botte e alle pallottole, e le riflessioni sulla vita, sulla paura, sull’amore, sulla tenerezza ,sulla lealtà, sull’amicizia.Secondo scansioni che alternano le tregue alle risse, dipanando la storia come nel teatro dei pupi. E anche se le trame sono ben architettate, conta la lingua, che certamente deve parecchio anche allo sforzo del traduttore. Nonchè la capacità da giocoliere di contaminare i generi, dal fumetto, all’iperrealismo, al noir, all’hard boiled ( e chi più ne ha più ne metta) riuscendo a generare nel lettore adulto lo stesso stupore credulo dei bambini,che guardano i cartoni animati come se la proiezione violenta dei colpi lasciasse intatti e immortali i personaggi. Mentre qui si sputa, ci si sventra, si va in pezzi, ci si piscia addosso e si muore. Ma ,per riuscire a farci capire sulla maestria dei registri , l’autore termina questa ilare, malinconica e violentissima sarabanda così: ”La luna era quasi piena, e la sua luce entrava di taglio nella stanza e cadeva sulla moquette e sull’estremità del letto. Quella luce mi faceva uno strano effetto, come se mi bastasse allungare un piede per vederla svanire. Era come se dentro di me qualcosa avesse cambiato posizione per cadere in profondità, tra le ombre, e qualunque posizione avessi deciso di assumere-seduta, sdraiata, eretta-nessuna luce avrebbe più potuto o voluto illuminarmi”

FIORI di Andy Warhol, 1970

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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