Film

DA RIVEDERE IN VACANZA

MUSCOLARE: per individuare un’anima sotto gli addominali scolpiti, percorrendo a ritroso la carriera di un’intramontabile icona

Casino Royale di Martin Campbell, Usa Gb 2007,145 m

Dunque si azzera tutto e si torna alle origini. Non era facile, dopo tante stanche propaggini fisiche e narrative a perpetuazione dell’ineguagliabile mito di Sean Connery, ormai fiabescamente consolidate nella mente del pubblico. Invece questo film, bello, spiazzante e sorprendentemente intelligente, ripropone freudianamente la formazione del personaggio, prima di diventare la maschera che Fleming avrebbe consegnato alla serialità romanzesca: con il fisico ancora incertamente minaccioso dei suoi tradizionali nemici, l’estrazione un po’ paesana che gli fa apprendere per la prima volta l’esistenza degli smoking su misura, l’indifferenza giovanile e ribalda ai Martini shakerati o mescolati, la disponibilità amorosa anche alla tenerezza e non solo alla conquista in serie. Con la immedicabile e fatale delusione che ne segue. Sullo sfondo, avventure spettacolarmente rocambolesche,eppure miracolosamente più credibili di tutte le altre che seguiranno. Fino all’ultima scena in cui, perse le illusioni, si porta a termine la prima missione e viene ucciso il colpevole di tutto il complesso intrallazzo, presentandosi come definitivamente prigioniero del suo autore: “sono Bond, James Bond”. L’individuo si fa emblema e assurge al suo immutabile Olimpo, fatto di aplomb britannico e di snobismo europeo di massa, di donne amiche o nemiche ma comunque da collezione, di aggeggi tecnologici sempre più mirabolanti, di avventure tutte uguali, a sempiterna illustrazione della sua invincibile metamorfosi. Ma grazie a questo film quasi commovente – nonchè acuto come un saggio di Umberto Eco – sappiamo che anche lui, come tutti,a vrebbe potuto essere un altro, trascinando sotto la perenne abbronzatura qualche nostalgica fragilità terrena, anche se ostacolata dalla coazione a ripetere. Lode allo sceneggiatore, al regista, a Daniel Craig che qui riabilita tutta la sua carriera precedente, e un omaggio floreale a Eva Green: bellezza oltre le mode, finalmente e, non a caso, anche di gran classe.

AUTORIALE: per entrare in un’avventura della carne e dello spirito, viaggiando in terre di lancinante bellezza

La Proposta di John Hillcoat, Australia GB 2005,104 m

Australia, fine ‘800: l’Inghilterra cerca di esportare la propria civiltà mediante avanposti di bianchi disperati, fanatici o indifferenti. Un capitano con un personalissimo senso della giustizia cattura due di quattro fratelli che hanno massacrato una famiglia di coloni bianchi. Trattiene quello giovane e innocente e lascia libero l’altro, proponendogli di uccidere il fratello maggiore,ossia il vero responsabile,in cambio del rilascio del minore. Sulle strisce di una terra orizzontale, trascorrono lentamente uomini, fatti e soprattutto tramonti, come una lunga attesa. Ogni tanto l’infinito tratto si interrompe per lasciare spazio al canonico rettangolo dello schermo, e l’azione si svolge.
A parte qualche compiaciuto vezzo di matrice intellettualistica, il film ha una sua singolare potenza fisica, psicologica e pittorica sul senso dello stare al mondo, da una parte o dall’altra del discrimine fra bene e male, mentre una natura stupefacente sembra prendere il posto di un Dio che l’ha abbandonata sul bordo del nulla. Violenza e affetti, imperscrutabilità e poesia, misteri fisici e dell’anima,ambizione di rappresentare sia la carne che ciò che da essa sfugge con l’ultimo respiro. Il regista e Nick Cave – qui in veste di sceneggiatore – ci riescono, con una trama accattivante che è soprattutto un pretesto esistenziale, servita da bravissimi attori e da paesaggi memorabili: un impasto di sangue, pietre e polvere che rimane addosso.

FAMIGLIARE: per sconfessare il proprio nucleo d’origine o allargarlo a degli amici particolarissimi. A suon di musica

Tenenbaum di Wes Anderson, Usa 2001, 109 m

Chissà perchè tutti sognano la grande famiglia, anche quando non sono figli unici. Forse perchè una grande famiglia ha un peso sociale ed è al tempo stesso un universo a se stante, in cui la pluralità degli individui moltiplica, come in un caleidoscopio, lessici, aneddoti, avventure, stravaganze. E perchè è un topos letterario.
Non a caso, infatti, questo bel film amaro e buffo è composto secondo i capitoli di un libro,e ci illustra lo sviluppo nell’età adulta dei tre piccoli iperprecoci Tenembaum, il divorzio sospeso dei loro genitori, il riavvicinamento e ravvedimento del padre, il matrimonio della moglie e madre…
E tutto è insieme vero e distorto, veloce e stralunato, esaltato e depresso. Con ritmi, figure secondarie, stilizzazioni che catturano l’attenzione dello spettatore, facendolo entrare nel magico (anche se talvolta malsano) cerchio, spingendolo a desiderare di essere anche lui uno di loro. Così come l’amico e scrittore drogato, che coltiva da sempre questa unica e serissima ambizione. Sì che i Tenembaum ritrovati possono chiudere il percorso delle loro derive, proseguendo,con più modestia, nelle premesse e promesse che erano stati.
Perfetta la scenografia, con magioni esteriormente magniloquenti e internamente ancora di un disordine infantile, appena toccate dalle malversazioni degli adulti; ammirevoli la sceneggiatura e la regia, indimenticabile l’atmosfera, capace di ellissi ardite come di attenti approfondimenti, che risolvono tutte le curiosità di chi guarda gli abili attori muoversi sincronicamente al suono di una colonna sonora da manuale: i Beatles,i Velvet Underground, Paul Simon…Un classico particolarissimo della storia del cinema

FRIZZANTE: per dissetarsi con un’analisi di costume fresca come un cocktail, con tanto di ombrellino e spruzzo di Bitter

Little Miss Sunshine di Jonathan Danton e Valerie Faris, Usa 2006, 106 m

La mostruosità dei concorsi di bellezza per bambini e l’illusorio abominio dei manuali per vincenti. Una famiglia sgangherata in cerca della realizzazione del proprio sogno, in un viaggio lungo una illusione. Una bambina grassoccia, occhialuta e deliziosa che li riunisce tutti, facendo loro riscoprire i legami veri. Partiti come dei rancorosi e disgraziati, ritorneranno riuniti, pur avendo perso il nonno cocainomane strada facendo.
Un film allegro e riflessivo, comico e quasi macabro, originale nella sceneggiatura e nei personaggi, iniziato con la voglia entusiastica di portarlo a termine. Ricorda la verità di Sideways, con bravi e affiatati attori, tempi perfetti, battute esilaranti, situazioni realistiche e al tempo stesso surreali. Il sentimentalismo e la mitologia della seconda opportunità, immerse nel grande sogno americano. Perfino acutamente sociologico. Arioso e intelligente, coinvolge e regala un’ ora e mezzo di arguto intrattenimento, salvo qualche paradossale, leggera forzatura, presto riacchiappata in punta di finale. E che rivela un giovane, singolare attore: Paul Dano, che sarà più bravo persino di Daniel Day Lewis nel successivo Il Petroliere.

SONTUOSO: per lustrarsi gli occhi in tempi di magra, reinventando la Storia in un tripudio di colori, suoni e profumi

Marie Antoinette di Sofia Coppola, Usa Giappone Francia 2006, 123 m

La Storia, si sa, appartiene al passato. A questa caratteristica se ne affiancano almeno altre due: il fatto di consentire una distanza di giudizio concessa solo ai posteri, ma nel contempo di permettere a questa equanimità di giudizio di diventare arbitrio. Abbiamo così, accertata la sconfitta di Waterloo, migliaia di Napoleoni oppure centinaia di Marie Stuarde, anche se tutte finiscono sullo stesso patibolo. Proprio la Storia diventa quindi una miniera in cui convivono il vero, il verosimile, il fantastico, secondo modalità più rassicuranti o più inquietanti che non in un’opera di pura fiction.
In questo caso Sofia Coppola si lascia sedurre da una bella biografia di Antonia Fraser -moglie di Harold Pinter – e inscena una Marie Antonietta adolescente e poi giovane donna, sedotta dalle stesse cose che piacciono oggi: le feste,lo shopping, l’amore, il disimpegno, fondendo disinvoltamente l’estetica dell’epoca con una colonna sonora prevalentemente rock. La trovata non è profonda, ma provoca il godimento delle orecchie e degli occhi e consente allo spettatore di delibare con delizia due lunghe ore di spettacolo,senza provare insofferenza. E ogni svolta della regale vita (fatta di agi sia vertiginosi che semplici, ma sempre tali comunque da rasentare il vuoto, nonchè marcata da pubbliche intromissioni oggi impensabili) viene scandita dai passi di lei che trascorrono prima lievi e poi dolenti nei lunghi corridoi di Versailles. Forse era lecito tralasciare il noto epilogo, visto che l’incombere della tragedia è già tutto adombrato nelle impossibili antinomie incoscienza-dovere, pubblico-privato, potere-caduta, bellezza-decadenza. Ma comunque onore alla regista, al direttore della fotografia, alla costumista e alla protagonista Kirsten Dunst, che hanno saputo inventare splendori aristopop tali da non scadere mai negli scontati stereotipi delle attuali confezioni di lusso.

PSICANALITICO: per eludere la tentazione di abbandonarsi su un lettino, privilegiando altri giacigli

Confidenze troppo intime di Patrice Lecomte, Francia 2004, 104 m

Patrice Leconte (La ragazza del ponte, L’uomo del treno, Il mio migliore amico) è uno dei più apprezzati registi francesi contemporanei. Quali sono i suoi punti di forza? Le sceneggiature con situazioni, caratteri e dialoghi sempre particolari; il modo di girare ,che sembra plasmare lo spazio intorno agli attori secondo gli stati d’animo dei personaggi; il rapporto quasi sempre duale e frontale fra professionisti di grandissima classe; la torsione che riesce ad imprimere al verosimile, rendendo veritiero e paradigmatico l’improbabile. E, ancora, una sorta di cifra personale,fatta di originalità,pacatezza ed eleganza.
In questo caso una paio di scarpe femminili, ma di foggia maschile, raggiungono la porta di un corridoio che conduce diritto al labirinto dell’incoscio: una giovane anonima, con problemi coniugali, scambia un commercialista per uno psicanalista, e lui l’asseconda. L’equivoco alla fine si dissipa, ma la storia va avanti, con snodi a canocchiale, riassunti mirabilmente in una frase che recita:”Entrambi i mestieri si assomigliano perchè inducono i clienti a dichiarare il nascosto”.
Film quasi perfetto,delicato,profondo,a suo modo umoristico, si gode d’un fiato come un chinotto quando si ha sete: il sapore è sempre lo stesso, ma ad ogni sorso si rinnova. Con qualche piccola pausa, anzi, qualche approfondimento di troppo sul finale, che poteva rimanere più misterioso o accennato o scommettibile. Un intimismo fuori moda sostenuto da intelligenza, sensibilità, mestiere e sempre abile nello scegliere un punto di vista che disorienta, svolgendolo con una consequenzialità rara, tra il malinconico e il malizioso.

SUGGESTIVO: per provocare qualche intermittenza del cuore, aprendosi ai problemi degli altri

Bagdad Cafè di Percy Adlon, Germania 1987, 112 m

Tra le sabbie del deserto di Santa Monica una fatiscente caffetteria finisce di marcire, nell’incuria di una singolare famiglia di colore, il cui capostipite se ne va, abbandonando la moglie. Simmetricamente una grassa turista bavarese viene spiaggiata dal marito e approda sola all’improbabile esercizio. Dopo incomprensioni e diffidenze, ne diventerà l’anima, consentendo ad ogni membro dello strano nucleo una speciale rinascita.
Film disuguale e imperfetto, che riesce tuttavia a creare delle suggestioni superiori ai singoli meriti della regia e della sceneggiatura grazie anche alla formidabile fisicità femminile di Marianne Sagebrecht e alla canzone di Jevetta Steele, I’m calling you. Fiabesco e realistico, pittorico e naif, sofisticato e semplice, ha sia delle geniali scansioni in movimento -il ripetuto lancio del boomerang- che dei lunghi fermo immagine -i muti ritratti di lei, magnifiche rivisitazioni di Botero-a intervallare la storia di più solitudini che lentamente convergono fino a ricreare una comunità. Malgrado i difetti, bussa alle costole e si aggrappa alla memoria.

NOSTALGICO: per immergersi ancora una volta in avventure che non si vivranno più

Quel treno per Yuma di James Mangold, Usa 2007, 117 m

Parlare di remake vorrebbe dire ricordare l’originale. Ma non è così. Liberi dal confronto,si segue il lungo viaggio che deve scortare un efferato bandito -Russel Crowe- fino al treno per Yuma che lo porterà all’impiccagione. Ed il percorso è concepito come una spiga di grano: sull’avanzare rettilineo verso la meta si innestano e si diramano trasversalmente molti episodi. Siamo in un classico che si segue con partecipazione, sia per il modo di girare che per la buona sceneggiatura. Ottima anche l’interpretazione dei tre protagonisti: il bandito, il contadino, il sottoposto. Prima o poi tutti raggiungiamo Yuma e prima o poi il treno passa:è dunque non una meta o un falso appuntamento, ma un simbolo, che si arrivi o che si abbandoni prima. E insieme ai tanti morti ammazzati le categorie del coraggio, della generosità, dell’orgoglio, del cinismo, della fedeltà si intrecciano e si confondono, tratteggiando in particolare due eroi romantici che appaiono umani e commoventi fino all’incredibile. Solo perchè frequentiamo tempi più cinici dell’utilizzo della pistola e privi di una qualsivoglia Bibbia. Un film lento e malinconico sul rimpianto delle strade che abbiamo comunque sbagliato a percorrere,comprese quelle negate o non scelte.

SORPRENDENTE: per recuperare la poetica della iattura con un film passato ingiustamente inosservato.

Pallookaville di Alan Taylor, Usa 2005, 93 m

Un buco americano di provincia, tre amici smandrappati, maldestri e per bene con inclinazioni velleitarie verso il male, in un contesto di parenti, fidanzate, cani che intralciano senza saperlo i loro piani temporaneamente criminosi. Perchè si tratta di organizzare una rapina che consenta loro, essendo disoccupati, di tirare avanti realizzando modesti desideri per sè e per gli altri.
Dedicata ad Italo Calvino,in quanto ispirata a tre suoi racconti, la pellicola si pone direttamente nel filone degli antesignani di Full Monty, anzi stupisce che l’analogia non sia stata colta, dato il successo di quest’ultimo. Ben coniugando sceneggiatura e recitazione, e opportunamente sfumando squallore, ironia, serietà e dramma fino a costeggiare la tragedia senza cascarci dentro, il regista riesce a confezionare un film intelligente, accattivante e capace di far sorridere con un tipo particolare di umorismo trattenuto ed implicito. Una gradevole sorpresa, dalla prima scena all’ultima. Forse non a caso il produttore di entrambi i film menzionati è Uberto Pasolini.

SURREALE: per sfatare il mito che non si può parlare della morte, magari singhiozzando dalle risate

Party di Frank Oz, Germania GB Usa 2007, 90 m

Perchè certi film si possono subito dire inglesi, altri francesi o tedeschi? Perchè qui circola un’aria tipicamente britannica tra il naturalistico, l’irrazionale quasi onirico e la farsa senza freni, intendendo per britanniche la normalità mischiata all’eccentricità, il riserbo applicato al paradosso e all’esplicitazione, il bon ton intriso nel ribellismo, e sempre in punta di guanti anche nelle fasi più politicamente scorrette. E poi le facce degli interpreti e, dopo le facce, le situazioni…Commedia noir assolutamente divertente, perchè lascia lievitare il riso ben oltre la battuta, esaltando le circostanze e il contesto, e non arretra davanti a nulla, pur rimanendo rigorosamente pudibonda. Buona la sceneggiatura -dello stesso autore del recente Tre uomini e una pecora- che s’ingegna di concatenare un equivoco all’altro, correndo a rotta di collo verso il disastro; bravi e affiatati gli attori, imperfetta la regia – ma in questo caso è quasi un pregio, a sottrarre coerentemente il film da una collinetta di premi, per relegarlo nell’angolo dei cult. Il che, talvolta, è quasi meglio.

TRUCULENTO: per esorcizzare la profezia dei Maya. Tiè

Apocalypto di Mel Gibson, Usa 2006, 139 m

Operazione colossale dal punto di vista scenografico(masse, trucchi, tecnologia, natura, lingua) e deliberatamente violenta. Niente di diverso da una lotta mortale tra buoni e cattivi, con estenuante e palpitante inseguimento finale, compresi i miracoli destinati solo agli eletti, ma non per questo più inverosimili di quanto avviene in molti esagitati action movie. Però ambientato 2.600 anni prima di Cristo, al crepuscolo per autodistruzione della civiltà Maya, poi finita dagli spagnoli con il colpo di grazia del loro arrivo. E quindi carica di tutte le suggestioni di un grande popolo, i cui riti e miti già di per sè costituiscono una fonte di attrazione anche orrorifica. Popolo oppressivo e quindi contrapposto ai selvaggi buoni, tutti natura,saggezza e famiglia, la cui nudità esalta in modo estremo la forza veemente del film. Ambientato nel verde senza remissione di una foresta ossessiva, per contrastare ed esaltare la città di pietra ,dedita ai sacrifici umani: lo spettatore rimane anche lui, suo malgrado, intrappolato in questa natura claustrofobica e ondeggia fra la sete di forti emozioni e l’autodifesa dal precipitare degli eventi. Mel Gibson sorprende molto più di altri registi per spunti e capacità, pur ricalcando la prima intuizione de La Passione di Cristo, riadattandone la cifra. Ma come spettacolo, è ben più coinvolgente dell’Avatar in 3D di Cameron. Comunque lo si voglia giudicare, rimane inciso nella carne, grazie al segreto di una fisicità divorante: puro e abilissimo cinema di immagini forti e di sentimenti basici, solo apparentemente esenti da qualsiasi sovrastruttura.

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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