Film

CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO

“Giungono mille cose essenziali. Son ritornelli di ritornelli. Fra i giunchi e la sera tarda, che strano chiamarmi Federico”; così Garcia Lorca nella poesia In altro modo, tradotta da Carlo Bo, che continua ad essere il suo migliore interprete in lingua italiana. E “un altro modo” è appunto quello escogitato da Scola per tentare di ripercorrere la vita e le opere di Federico Fellini nel ventennale della sua morte, a metà fra l’omaggio, il documentario e la ricostruzione per immagini e ambienti, con spezzoni d’epoca e scene affidate ai teatri di posa, lungo il filo di una testimonianza collettiva e al tempo stesso strettamente privata, come a fare giustizia dei tanti ritornelli di ritornelli che hanno accompagnato il “grande mistificatore”.

Si inizia nel 1939, con l’approdo al giornale satirico Marc’Aurelio, cui nove anni dopo comincia a collaborare anche il giovanissimo Scola, che è la parte più lunga dell’opera, quasi a voler indugiare sulle comuni radici, foriere di quelle amicizie così solide da permettersi di essere saltuarie. Si prosegue con i primi successi di Fellini, vissuti di fatto come un’eco delle insonni scorribande in automobile per le strade di Roma, a sottolineare sia la vicinanza di due itinerari artistici, sia lo spirito di una personalità inafferrabile nella sua continua alterazione della realtà, che trascorre dall’inventiva poetica alla bugia prosaica e viceversa.

L’operazione di Scola affida la sua forza di testimonianza partecipe quasi esclusivamente ai momenti comunemente vissuti, sì che le controfigure dell’uno e dell’altro regista proseguono affiancate, con un commentatore di comodo a cucire i ricordi, mentre i disegni autografi di entrambi si alternano alle rare interviste fuori campo e ai brevi filmati di repertorio, e gli anni si inanellano per cenni espliciti e lunghe ellissi, secondo una carrellata di indugi come di omissioni, munite di date e di circostanze che sembrano voler reintrodurre un ordine convenzionale nell’insondabilità della poetica esistenziale e autoriale di ciascuno.

Ne risulta un’opera diseguale e solo a tratti suggestiva (per esempio l’incontro notturno con il madonnaro della fontana di Trevi, affidato a Sergio Rubini) dove la reinvenzione della memoria quasi si scontra con un’iconografia così nota da rasentare la sovraesposizione da rotocalco, senza saper prendere partito tra il pudore trattenuto e le esplicitazioni di pubblico dominio. In altre parole, Scola appare quasi sopraffatto sia dalla contraddizione tra distanza temporale e prossimità personale, sia dal mondo vieppiù onirico e cartonato di Federico; cerca quindi di “adottarlo” a discapito della sua arte, senza riuscire a celebrare le due grandi polarità della propria personale cinematografia: il lungo racconto epocale di taglio psico-sociologico (C’eravamo tanti amati, La terrazza, Ballando ballando, La famiglia…) e la pregnanza storica per omissione, che trova il suo culmine in Una giornata particolare, dove l’essenza stessa del nazi-fascismo incombe drammatica nel cavedio del romano Palazzo Federici, senza nessuna esplicitazione visiva…

Tutti gli incontri delle nostre vite sono anche un’occasione per rinnovare i nostri ripetitivi personaggi, tra una lisciata di penne e un rinfrescar di pizzi. Ma mano a mano che i ricordi avanzano a sfavore delle attese, la memoria di quello che siamo stati diventa spesso percorso mitologico, a conforto parziale di quanto non si può più mutare: umana alterazione senza necessaria frode che diventa difficile quando si scontra con l’inesorabilità di personaggi ed eventi risaputi e documentati, tali da impedire la fantasia dell’ornato, quell’ornato che è poi di fatto il primo spunto di ogni trasfigurazione artistica.

Cammino vitale, colloquio, documento, suggestione, licenza letteraria e visiva, il film di Scola non rivela inediti punti di vista, e si chiude con le citazioni convenzionali di molte pellicole felliniane e con le esequie di Federico-Pinocchio, immortalate da una sua immaginosa corsa tra gli studi di Cinecittà, mentre i due carabinieri inseguitori ansimano in mezzo a scenografie marcescenti, su musiche di Rota. Un modo per dire che non è finita e non può finire, lasciando alla personalità dello spettatore il vero valore aggiunto dell’emozione:se giovane, in termini di stupore e di apprendimento, se attempato, sotto forma sia di ripasso oggettivo che di amarcord intimo. E poiché la scelta diventa nostra, ci piace menzionare uno struggimento analogo e diverso, contemplato nell’undicesimo canto dell’Odissea: Ulisse in carne ed ossa che visita un Ade di ombre, senza premio né punizione, e si imbatte nell’infragilito spirito di Achille, antico compagno pronto a rinnegare tutto in cambio di un solo respiro umano; per poi allontanarsi veloce lungo prati di asfodeli che non si piegano al suo passo, lieto almeno dell’avvenuta commemorazione.

CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO di Ettore Scola Itakia 2013, durata 90 monuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

Marinella Doriguzzi Bozzo