BIUTIFUL
Breve sfogo del recensore, che comincia a sentirsi intrappolato in una storia lunga come i rotoloni Regina. Sì, perché dopo La donna che canta, Kill me please, Il responsabile delle risorse umane, Hereafter, si è di nuovo aggiudicato, sui novanta numeri del lotto, il 47, morto che parla. Nella fattispecie, il morituro Uxbal, anche lui in comunicazione con coloro che il passo l’hanno già fatto. Anche se non si capisce se ci crede davvero o per denaro, che in questo senso il tema è appena accennato e non svolto (e meno male, che di carne al fuoco del trapasso ce n’è già fin troppa).
Tenero padre di due figli in custodia – la madre è una maniaco depressiva – vive facendo da tramite tra le forze dell’ordine corrotte e il mercato dei clandestini cinesi e africani, che fabbricano e spacciano falsi d’abbigliamento: sia al margine della legge che a cavallo del confine fra il bene e il male. Trascinando così le sue contraddizioni, finché la tardiva diagnosi di un cancro diffuso non gli lascia che due mesi di vita. Che, fra un vomito ed uno zampillo di sangue, trascorre temerariamente, a dispetto di qualsiasi reale decorso clinico in materia. Cercando nel contempo di riparare al male fatto alla merce umana di cui si occupa e di assicurare un futuro ai figli, che già vivono affettivamente e materialmente in condizioni più che precarie. Perché “la morte è un espediente attraverso il quale si arriva ad apprezzare la vita”, secondo le dichiarazioni del regista. Che forse dimentica di aggiungere: per chi rimane.
Privato per la prima volta dell’apporto di Guillermo Arriaga, suo sceneggiatore di fiducia – Amores perros, 21 grammi, Babel – il regista scrive una storia finalmente rettilinea (e anche qui meno male, perché all’ennesimo vezzo labirintico lo sfogo del recensore si sarebbe trasformato in una pubblica richiesta di eutanasia), che si chiude circolarmente, finendo là dove inizia. Ossia tra due mani che si passano un anello matrimoniale e un bosco di betulle preso a prestito da un quadro di Klimt opportunamente dilavato. Per tutta la restante durata, il film si avvale invece di colori ipersaturi da sottoesposizione, con momenti di accelerazione che sconfinano in sfocamenti concitati. Magnifici violetti, verdi intensi, azzurri disarmanti si alternano così a tocchi esotici di zafferano e di rosso cupo, trasformando la location in una allucinazione da discoteca.
La città di Barcellona diviene riconoscibile (intelligentemente) solo ben oltre la metà del film, a sottolineare sia la realtà che la metafora, in un dedalo di vicoli, di sottoscala, di tinelli sordidi, intrisi di sporcizia e di disperazione come di amore. Amore frequentemente espresso in dialoghi qualunque, fra i piccoli impegni del quotidiano, dove il rito del desco con cibo in scatola assurge a simbolo dell’intimità familiare e prende il posto del sottaciuto.
Dunque, ancora una volta un film che cerca di accreditarsi con un argomento alto e di larga presa. Che si avvale di una storia imperfetta, piuttosto semplice anche se un po’ arzigogolata, le cui intenzioni sono superiori alla realizzazione. E che tuttavia dispone di alcuni momenti di vero interesse cinematografico, si vedano la restituzione dei cadaveri cinesi sulla spiaggia, la scena in discoteca, l’accompagnamento a scuola dei bambini da parte della coinquilina di colore, le intemperanze fra la moglie bipolare e il fratello del protagonista.
Affidato a quel Javier Bardem che solo i fratelli Coen hanno saputo trasformare in altro da sé(con il magistrale taglio di capelli alla paggio in Non è un paese per vecchi) e che ci riesce difficile giudicare come attore, disponendo di una maschera fisica di così improbabili equilibri, da costituire già di per sé motivo di interesse, in quanto sfida vinta dalla natura sull’uomo vitruviano. Per la cronaca, miglior attore protagonista al festival di Cannes 2010
BIUTIFUL di Alejandro Gonzale Inarritu , Usa 2010 , durata 138 minuti