KILLER JOE
Dimentichiamo L’esorcista (1973), film epocale che ha costituito per il grande e diseguale William Friedkin una sorta di appiccicoso sudario ante litteram. Puntiamo viceversa la memoria su di un altro suo titolo, ossia il notevolissimo Vivere e morire a Los Angeles (1985) in cui si affacciavano i temi del doppio e dell’impercettibile confine che separa il crimine dalla legalità, qui portati alle loro estreme conseguenze: entrambe le pellicole sono infatti un incrocio tra il noir e il poliziesco con venature socio-esistenziali, e tutte e due hanno un’origine eminentemente letteraria, che viene felicemente trasposta in termini cinematografici – a riprova del fatto che, quando le opere riescono, è del tutto superfluo fare raffronti fra la parola scritta e l’immagine. La matrice teatrale da cui Killer Joe è tratto è talmente sublimata da avvertire una sorta di vago sospetto in tal senso solo negli ultimi dieci minuti- forse i meno felici – riscattati a loro volta dalla perfetta enigmaticità dell’inquadratura finale.
E lode sia subito all’eclettico Tracy Letts, attore e commediografo, Booker Prize for drama nel 2008, che qui è anche accorto sceneggiatore del suo stesso testo. Al cui copione nitido, denso, sofisticatamente consequenziale e inesorabile come una tagliola va una significativa parte dei meriti della tesissima trama, resa avvincente grazie ad un collage di citazioni e di topicità classiche, ma elaborate in modo da sortire un risultato bizzarramente originale e indelebile.
Il regista aggiunge di suo una saldissima guida degli attori e un modo di concepire la luce, il buio, la ferocia, il trascorrere delle ambiguità secondo un continuo gioco di ribaltamenti e di allusioni in cui ogni singolo particolare assume una sua calcolatissima valenza, sia fisica che morale. Mentre i campi lunghi, le figure intere, l’alternarsi degli interni e degli esterni danno una cupa ariosità alla storia ma senza privarla dei suoi connotati ansiogeni. Gli echi di Quentin Tarantino, Tennesse Williams e i fratelli Cohen restano soltanto echi, perchè il piccolo miracolo di questo film consiste nel coniugare tutte le consuetudini del déjà vu di generi e stili con una robustezza inedita che ci si porta dietro a lungo. Non tanto per la violenza esplicita ed implicita che lo permeano, quanto per un’intrinseca potenza, che ci consente di assistere a un’operazione intrigante anche se tutti gli ingredienti sono noti.
La cifra di questa novità-famigliarità è distillata nella figura del protagonista, appunto il killer del titolo: nerovestito, circondato da una sorta di alone simile ad una sbavatura di inchiostro, temibile come tutti gli spietati che controllano ogni cosa con modalità gelide sconfinanti in una rarefazione beffarda, Joe è un poliziotto con la vocazione del sicario a pagamento,trascendendo se stesso e il proprio duplice ruolo in una sorta di delirio di onnipotenza. Un delirio che si accontenta di mettere in atto quotidianamente (nella veste di investigatore dei suoi stessi delitti su commissione) in una sgangherata contrada del Texas, disseminata di grandi roulotte come abitazioni permanenti, guardate da un cane a catena che è al tempo stesso vittima e custode degli inferi.
All’interno, quel che rimane di una famiglia molto allargata, dai rapporti contrastati sia in modo esplicito che sotterraneo, in cui tutti sono ingannevolmente diversi da quelli che sembrano, sorprendendo sia loro stessi che gli altri. Con attori perfetti per esprimere la contemporaneità di indigeni bianchi collocati sugli ultimi gradini della scala sociale, in un convergere di situazioni e di psicologie che rappresentano una sorta di autopsia dell’amoralità e del degrado, ma mescolati a qualche antica traccia di costumi e di istituzioni in via di definitivo svuotamento. Rimangono in piedi alcuni rituali consumistici, le meschinità dei sogni erosi dagli appetiti contingenti, e le reciproche sopraffazioni, tra il macabro e l’ingenuo, con frequenti tratti di umorismo quasi involontario, a connotare le ceneri di una parvenza di consorzio umano (e non diremo altro, perchè è parte essenziale dell’interesse del film).
Non è frequente imbattersi in un’opera che tiene desta l’attenzione dall’inizio alla fine, e di cui si cerca di indovinare inutilmente l’epilogo,c he chiama in causa il personale apporto degli spettatori. Nel contempo è concesso delibare anche la grande accuratezza della fotografia e della scenografia, per non parlare del sorprendente riscatto attoriale di Matthew McConaughey, strappato non si sa come alla lunga ebetudine dei profumi Dolce & Gabbana e proiettato, con doppio salto mortale, all’interno di un personaggio antico e insieme nuovo, che è una sorta di derisorio ma credibilissimo sberleffo ad una icona scontata solo in apparenza.
E, a proposito di credibilità è interessante notare come il presunto realismo di molti degli ultimi film usciti fin qui venga capovolto in favore di una vera trama romanzesca, eppure carica nel contempo di vero sangue, di vere miserie, di vero unto di pollo fritto, che riescono non solo ad intrattenere, ma a dire qualche cosa di anche metaforicamente credibile sia sulla vita che sulla trasformazione dei generi in funzione dei tempi.
KILLER JOE di William Friedkin, Usa 2012, durata 130 minuti