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DUBLINESQUE

Si può riconoscere un grande testo solamente dall’incipit? In questo caso sì. Enrique Vila-Matas, senza preamboli, quasi con violenza, spalanca la porta che separa il lettore dal libro che deve ancora leggere, ed entra, in terza persona, dentro la storia. Anzi, più che nella storia, nella privata intimità di Samuel Riba, ex editore in Barcellona. Editore colto, letterato vero, alla perenne e frustrata ricerca dell’autore assoluto che non ha mai trovato e continuamente rimuginante sulla fine dell’era della stampa a favore dell’invasività della rete.

Costretto a chiudere la propria prestigiosa casa editrice sia dalla nuova moda delle storie gotiche che dalla scarsa perizia manageriale, dal momento che, per sua stessa ammissione, possiede solo un tipo di intelligenza morale – dunque né pratica, né politica, né finanziaria.
Sta per compiere 60 anni, non comprende il fascino dell’invecchiare, tende a leggere la sua vita come un testo letterario, a sua volta occultato dai libri che ha pubblicato. Di fatto, la sua biografia è il suo catalogo, ma l’uomo che era prima di fare l’editore non c’è più. Non si trova.

E’ figlio unico senza figli, sposato ad una donna che ama e che sta per convertirsi al buddismo. Vive in uno stato di nebbiosa sobrietà permanente dopo anni di alcoolismo, che però gli consentivano una vita sociale che ha perduto. Ora vegeta, infatti, come un hikikomori, ossia un isolato e quasi autistico adoratore giapponese di internet, mantenendo qualche scarsa relazione con pochi amici, due genitori anzianissimi, e molti fantasmi.

Durante un viaggio a Lione, ad esempio, è rimasto chiuso in albergo ad elaborare una teoria letteraria sui cinque elementi imprescindibili nel romanzo del futuro: intertestualità; relazione con l’alta poesia; coscienza di un paesaggio morale in rovina; leggera superiorità dello stile sulla trama; scrittura vista come un orologio che avanza. Poi, l’ha buttata nel cestino; e adesso non sa cosa raccontare ai due superstiti della sua famiglia che, in qualità di padre e di madre, aspettano, come sempre, il resoconto del viaggio. Da questo rito mancato, dietro i vetri di un appartamento umido in una Barcellona sommersa dalla pioggia, ha inizio per la prima volta un altro viaggio, verso il sogno di una fatale Dublino ossessionata da Joyce e da Beckett.

Perché tanta dovizia di dettagli? Perché il personaggio è il romanzo, ma è, al tempo stesso l’incarnazione umana di tutto ciò che è “sapere”, e non esclusivamente letterario. Perché la sua mente come il suo corpo sono sustanziati di testi di grandi autori, di quadri di grandi pittori, di film e di canzonette, tutti intesi sia come punti di vista che come intermittenze del cuore. Perché, mediante Riba, l’autore non inscena soltanto un sofferto ed al tempo stesso ironicamente disperato collasso individuale, ma lo utilizza altresì per riflettere sul parallelo tramonto epocale di una società appannaggio dei “nuovi barbari”.

E lo fa con una struttura suddivisa in tre soli capitoli intitolati ai mesi di maggio, giugno, luglio, dilatando la concezione quotidiana dell’Ulisse di Joyce, ma al tempo stesso conservandone lo stream of counsciousness. La scrittura infatti non è epica, bensì quasi piatta, cronachistica – senza diventare peraltro una registrazione minuziosa che possa andare a scapito della suspense o del pathos. L’andirivieni sia fisico che mentale del personaggio principale è a sua volta un incastro – peraltro limpidissimo – di occasioni, di pensieri, di incontri, di riflessioni come di tempi diversi della vita. Punteggiati, secondo un motivo che sempre ritorna, di autori contemporanei in carne ed ossa, come di grandi illustri del passato; di presenze misteriose incarnate da personalità inquietanti che spesso si assomigliano, e che appaiono per subito sparire; e di altrettante presenze disincarnate, a rappresentare delle sensazioni attualissime che però affondano in un tempo remoto.

Con le scene vivide quanto inquietanti dei genitori, che sono una sorta di inconsapevole motore dell’azione, così come dei pochi amici che punteggiano la caduta del protagonista: non aulico, distante, saccente, bensì affettuosamente umano, che si avvale spesso di citazioni altrui che suonano come un lessico famigliare, come i proverbi delle anziane domestiche di una volta.

Insomma, una grande opera ineffabile, anche nel senso etimologico di “non parlabile”, non descrivibile; ma anche un documento potente e profondo su una postmodenernità che si sta sfasciando. Da non sottolineare con la matita nei punti salienti, perché se no, lo si sottolinea tutto; e che andrebbe venduto come un medicinale nelle farmacie. Sia perché deve essere reiterabile/rileggibile, sia perché abbisogna di un foglietto illustrativo di accompagnamento:

– chi ritiene di non muoversi con sufficiente disinvoltura nei mondi di Beckett e, soprattutto, di Joyce, se ne freghi e superi il dubbio di slancio.

– chi pensa – legittimamente – che la letteratura, o meglio, la creazione, esista per la sua ricreazione, si astenga. Non è un libro da leggere per intrattenersi, dimenticandosi di se stessi.

– chi ritiene che il pensiero altrui, sotto qualsiasi forma, gli espanda la vita, maneggi con cura: potrebbe dubitare di essere ancora dentro la sua (nonostante l’inequivocabilità del proprio battito cardiaco).

– chi invece sospetta da sempre delle proprie certezze, della sua collocazione nel mondo e dei confini che definiscono le molte forme dell’essere e del non essere, ma ama andare incontro a ricordi non vissuti, ha trovato la sua medicina: che non offre guarigioni, però propone il prezioso, emozionante lenitivo di una originalissima interlocuzione simbiotica. Illuminante e disperatamente ironica.

DUBLINESQUE , di Enrique Vila-Matas, Feltrinelli 2010, 246 pagine, 18 euro

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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