Film

MR. BEAVER

Jodie Foster è una brava attrice, di una bellezza affilata, intelligente e non convenzionale, e forse una ancor migliore regista, attenta indagatrice delle dinamiche affettive, nello specifico di quelle famigliari come ne Il mio piccolo genio (1991) e A casa per le vacanze (1995).

In questo suo quarto film, presentato fuori concorso al festival di Cannes, ribadisce il nucleo di interessi portati avanti da sempre, con un doppio atto di coraggio: quello di mettere in scena il connubio fra un uomo ed un pupazzo, facendoli parlare ed agire in contemporanea, e quello di scegliere come interprete principale l’amico Mel Gibson, travagliato da vicende private non così dissimili da quelle portate sullo schermo.

Infatti il protagonista della pellicola, padrone e amministratore delegato di un’azienda di giocattoli, con tanto di stabile famiglia a carico, è un individuo che sta tradendo se stesso: dorme tutto il tempo perché è depresso, e negli intervalli fra uno stato di atarassia e l’altro beve. Dopo un goffo tentativo di suicidio in una vasca da bagno, ecco un’improvvisa spogliazione della propria personalità malata mediante il transfert su un castoro di peluche, alter ego energico che assume su di sé le residue forze sane dell’uomo e ne diventa tanto mentore che doppio. I risultati saranno eccellenti sia sotto il profilo caratteriale che professionale, dal momento che non si tratta di una terapia imposta dall’esterno, bensì originata dalla stessa psiche del soggetto, in un estremo tentativo di conservazione dell’io e di quanto lo circonda.

Purtroppo, malgrado i successi dell’espediente, l’entourage non accetta l’onnipresente e sostitutiva protesi castoresca. Si dà la preferenza alle pillole, alle sedute psichiatriche, magari anche all’internamento, ma non si può accogliere un’anomalia nell’anomalia. Fino al drammatico finale – perché anche gli autorevoli castori sono dotati di amor proprio e lottano per sopravvivere.
Ambientato con estrema naturalezza ai giorni nostri, il film sa evitare abilmente parecchie trappole : da quelle dei manuali tipicamente americani del fai da te (tanto ingenui quanto trionfalisticamente truffaldini) alle elucubrazioni di matrice psichiatrica, dato che avvolge con lo stesso doloroso filo anche il figlio adolescente e la sua ragazza. il primo murato nel tentativo di evitare la somiglianza genetica con il padre, la seconda negata in un dolore rimosso che le impedisce di esprimere i suoi talenti creativi.
La moglie è tanto partecipe quanto spaventata, e resta imperturbabile solo il figlio piccolo, a testimoniare come da sempre l’infanzia badi ai risultati e non alle sovrastrutture o ai pregiudizi (e ognuno di noi avrà sicuramente memoria di compagni immaginari come di intimi amici inanimati).

Senza mai trascendere nel simbolico o nel surreale, ma restando con i piedi ben ancorati nella realtà, fino a reinterpretare e modificare la mitologia contemporanea della seconda chance, la pellicola si avvale di una buona performance attoriale complessiva nonché di una fluidità narrativa non solo drammatica ma anche comica lungo l’impianto di natura eminentemente classica. Con particolare attenzione alle interazioni fra i soggetti, ritagliate con sensibile e affettuosa delicatezza.

Tuttavia, sotto il profilo strettamente cinematografico, qualche cosa di non facilmente precisabile mina la piena riuscita dello spettacolo. Forse il controllo razionale ferreamente mantenuto dalla regista nei confronti delle plurime sollecitazioni emotive che offre la vicenda. O forse in virtù del fatto che l’economia romanzesca si avvale di continue ellissi, lasciando solo trapelare le molte implicazioni serie di un discorso non solo privato, ma di natura anche sociale. Oppure ancora perché, almeno per gli spettatori memori degli altri due film così sapientemente partecipi e compenetrati, qui la Foster sembrerebbe non abbandonarsi fino in fondo, magari non osando esasperare il suo stesso coraggio.

La voce illustrativa fuori campo è quasi sempre un espediente didascalico ad integrazione di qualche vuoto nella storia o nell’ispirazione, che rende il risultato fluido, diligente e agevolmente trasmissibile, ma che non sa colpire al cuore, incidendo emozionalmente anche nella memoria. Forse perchè imprigionato nel paradosso di un’audacia sempre sul filo del rasoio, che semplifica per non cadere.

MR. BEAVER di Jodie Foster, Usa 2011, durata 91 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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