Film

ROBIN HOOD

Pare inevitabile, andando a vedere l’ultimo film di Ridley Scott, cominciare ad armeggiare con le dita per ricordare quanti Robin Hood ci siamo già gargarizzati soltanto al cinema. E con la precisa, sconfortante certezza, di venire anche in questo caso puntualmente sconfitti, come per i sette nani o i sette vizi capitali o innumeri altri elenchi di maledetti sette.

Dunque, procedendo a ritroso (e barando un poco, mediante posteriori sbirciatine ai testi): R. H: un uomo in calzamaglia, di Mel Brooks (1993), parodia del precedente, con citazioni da Il padrino; R. H: principe dei ladri, di Kevin Reynolds, con Kevin Costner (1991), celebre per la freccia ripetutamente scoccata dritta nell’occhio dello spettatore; Robin e Marian, di Richard Lester (1976), con Sean Connery e Audrey Hepburn, la coppia più sorprendentemente glamour fra tutte, nonostante o proprio in grazia dell’età matura dei due. Vari e confusi film della Disney, di cui ci è rimasta memoria solo del rossovolpe del protagonista, inguainato in una calzamaglia color bruco attillato; e infine, con un ultimo sovrumano sforzo, La leggenda di R. H. con Errol Flynn, e qui la data vacilla lontanissima. Il resto, è cinema muto.

Ci accasciamo finalmente nella poltrona con le dita ancora anchilosate, e cominciamo subito male: un cartiglio fasullamente anticato che più fasullamente non si può, ci avverte subito delle pretese storiche più che mitologiche del film. Ma con una furbata: che non potendo dilatare certi personaggi declinandoli sui quattro punti cardinali (R. H. tra i Watussi, R. H. alla scoperta della Patagonia ecc.) c’è solo, come possibile scelta, il su e giù temporale, ossia il prequel o il sequel. Siamo nel primo caso, ma, ahimé, declinato ben diversamente dal vincente Casino royale con James Bond, sfida impossibile stravinta con l’acume di un saggio alla Umberto Eco.

Qui si ricostruisce invece in un modo più pedissequo che maldestro una Storia più o meno arbitraria, cui possiamo accennare, senza il timore di svelare la trama del film, visto che tutti sanno com’è andata a finire la rivoluzione francese o la battaglia di Trafalgar.

Re Riccardo, di ritorno in una Inghilterra impoverita e problematica, prevaricata dal fratello Giovanni, inviso a gran parte della nobiltà, nonché concupita dalla Francia, viene ucciso a tradimento. Robert, arciere provetto, e pochi altri commilitoni, lasciano l’esercito. Strada facendo si imbattono nel morente sir Loxley, e Robert prende l’impegno di consegnarne la spada al vecchio padre. Poiché non si diventa in quattro e quattr’otto una leggenda, se non si è ampiamente predisposti da opportune qualità, il Nostro mantiene la promessa, correndo non pochi rischi: con il consenso della nobile famiglia si identificherà poi nel defunto sir Loxley, assumendone l’identità, nonché il diritto di giacere con la riottosa lady Marion, dagli incantevoli zigomi rosa, moglie del fu. Seguono vicende più o meno pretestuose per restituire all’Inghilterra il suo onore, e guadagnare finalmente l’esilio nella foresta di Sherwood con la bisbetica domata al fianco, e prendere quel tanto di rifiato, stando alla macchia, per far sì che l’arciere Robert si tramuti poi nel Robin della leggenda (con nell’aria tutte le possibili minacce di un altro sequel).

Ciò detto, che cosa interessa a un grande regista come Scott o che cosa ci vuole rappresentare, per mobilitare cifre colossali sia in uomini che in mezzi, e rifare il già più volte rifatto? Non il carattere del soggetto, che non si allontana dagli scontati stereotipi dell’eroe nascente. Non i personaggi al contorno, in questo caso poco meno che comparse fisiche; non l’originalità del punto di vista storico; non, non, non. Al regista interessa (forse) entrare “dentro” i soldatini di piombo della sua infanzia e/o risperimentarsi in una mutata riedizione di un Gladiatore più maturo, probabilmente con gli stessi entusiasmi di botteghino.

Quindi cerca di meravigliarci, di stupirci, di confonderci con la grandezza: tante battaglie, perfettamente girate; tanti paesaggi, ecologicamente suggestivi; tanta regalità, ma più nei codici d’onore che nella povertà diroccata dell’ambientazione; tanta tecnologia; tanta sapienza fotografica e complesse disposizioni delle macchine da presa. Tanta fisicità allenatissima. Insomma tanto di tutto: ben fatto, diligentemente dettagliato, e senza anima. Ché non un solo fremito degli innumeri sentimenti a disposizione viene mai sollecitato durante le due ore abbondanti di proiezione.

Dimenticando che anche in campo bellico siamo ormai assuefatti da Salvate il soldato Ryan, o da Braveheart, piuttosto che dai vari Signori degli anelli.

Cosa rimane? In fondo, solo Russell Crowe. Che nel suo modo svagato e sornione di essere un uomo sia di pensiero che d’azione, eppur capace di attendere in amore, si aggira con quel suo fare da trapunta qua e là scucita da sbuffi di pinguedine, trasmettendo allo spettatore il senso di rispetto, solidità e sicurezza tipici di una affidabile e virilissima mamma orsa. E dei costumi apparentemente slavati, non sappiamo se filologicamente corretti, ma di una sublime eleganza casual, rigorosamente ton sur ton.

ROBIN HOOD di Ridley Scott, Usa gran Bretagna 2010, durata 148 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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