QUASI AMICI
La parola buonismo – e buonista – è di conio recente e viene registrata dai dizionari a metà degli anni ’90. Come tutti gli “ismi” è una derivazione, e, nel caso, un annacquamento o un’ironia ambigua sul sostantivo “bontà” e l’aggettivo “buono”. Dovrebbe di fatto individuare un’ampia (e abusata) disponibilità nei confronti dell’avversario o di quell’infernale prossimo sartriano a cui noi, incattiviti dai tempi, non siamo disposti a credere fino in fondo, sia per cinismo che per pudore. E non è un caso che il film in questione non solo contempli nel titolo italiano il mitigante avverbio “quasi”, ma si premuri di citare in coda i volti dei protagonisti reali: perchè, signori, questa non è una edificante storia inventata, ma una storia vera. Come se le favole a cui aneliamo e che ogni tanto la vita ci offre avessero bisogno di un sospetto certificato di autenticità.
Sotto questo profilo, infinitamente meglio il coraggio di Kaurismaki di osare fino in fondo i peschi in fiore fuori stagione in Miracolo a Le Havre senza chiose giustificative; o un classico come Pretty Woman, che dichiara viceversa alla fine la sua appartenenza alla fiaba e che, per molti versi, ricalca la stessa tematica di Quasi amici: un individuo atrofizzato nell’intimo salva una creatura socialmente reietta e a sua volta ne viene salvato, con tutti gli stereotipi della ricchezza e della povertà a far da sfondo (sesso e amore a parte).
Mutati gli addendi al contorno della stessa operazione, qui si tratta di un paraplegico (ovviamente facoltosissimo ed erudito) che ha l’intuizione felice di assumere come badante un avanzucolo di galera (per di più di colore) assorbendone la dirompente, vitalissima disinvoltura. A sua volta riuscirà a disseppellire l’umanità intelligente e sensibile dell’altro, che dispone altresì di un inestimabile pregio: l’assenza appunto di quel buonismo che gli consente di trattare crudamente l’invalido per quello che è, senza infingimenti ipocriti. Insomma, ancora una volta la storia di un incontro, in cui l’osmosi sia delle diversità come delle empatie migliora la vita di entrambi, rendendola degna non solo per necessità.
Poteva essere un’operazione o troppo facile o troppo difficile, in ragione dell’ambiguità contemplata dal neologismo in questione. Invece il film (paradossalmente buonista contro il buonismo) si salva proprio grazie alla dinamica misurata e attenta che riesce a mettere in gioco e che è una delle qualità ricorrenti del cinema francese – non necessariamente d’autore. A partire dall’ambientazione ricercata, usufruibile dall’uno ormai solo come una teca per sopravvivere, e percepita dall’altro come una fantastica caverna di Alì Babà: il lettone, la vasca da bagno (simile anche a quella de La ragazza con la valigia, 1961) l’auto potente, lo stuolo di domestici e assistenti, alcune delle quali con sederi che sono un invito.
Agli ambienti interni si contrappongono anche felici sortite all’esterno, in cui la strana coppia si esibisce vuoi in agrodolce vuoi sul filo della trasgressione: dalle canne, alle donne, al parapendio, alla semplice liberazione del respirare all’aperto. Intanto la dialettica servo-padrone (classica nel denaro, ma anche rovesciata dalla malattia) si trasforma in complicità reciproca.
Si prosegue con l’ottima scelta degli attori, uno di ironico e dolente intimismo (François Clouzet), l’altro con un’impudenza nerboruta da musical (Omar Sy), e si continua con i dialoghi e le battute, disposte e inanellate come in un minuetto moderno. Non ci si ferma alle antitesi degli opposti, bensì si esibisce qualche tocco audace di politicamente scorretto che fa fremere le platee, tanto la storia è esemplare, giocata abilmente su spunti e contrappunti che lasciano anche i debiti spazi all’illustrazione dei ricordi personali, grazie anche ad una sceneggiatura accurata, che sembra realistica, ma di fatto non lo è. E che in questo senso sfuma poco abilmente sugli scialbi personaggi al contorno, perché, in fondo, nelle parabole sono sempre scarsamente significativi.
Una menzione merita infine la colonna sonora, che prosegue il gioco delle contrapposizioni mediante il lusso elitario di Schubert, Vivaldi, Chopin, e la “povertà” popolare degli Earth, Wind & Fire, mentre sullo sfondo Ludovico Einaudi compone e suona Ludovico Einaudi, in guisa di commento e di raccordo fra i due estremi.
Non si ride a crepapelle, come erroneamente la pubblicità e il battage sugli incassi gallici vorrebbero far credere, ma si sorride qua e là, assecondando il gioco di una commedia oliata e finto-vera, capace (grazie ad un abile artigianato con un discreto senso del ritmo e del marketing) di riassumere piacevolmente molti stereotipi già lungamente sfruttati, minimizzando però le pecche e le incongruenze. Decisamente meno originale (per rimanere in Francia e nei successi di genere) de Le donne del sesto piano – 2011- anche se molto meglio de Il truffacuori – 2010). Mentre un altro campione epocale di incassi oltralpe, Giù al nord del 2007, due volte copiato da noi, meriterebbe un discorso a parte per motivi linguistici che si perdono nel doppiaggio.
QUASI AMICI di Olivie Nakache e Eric Toledano, Francia 2011 , durata 112 minuti