Film

BLING RING

Argomento del progetto: alcuni adolescenti dell’upper class di Los Angeles visitano le case delle celebrities per impadronirsi di beni di lusso che fanno tendenza, sia a scopo di utilizzo personale che di smercio, procurandosi con il ricavato lo stesso luccichio degli oggetti che rubano.

Avvertenza:quando un’operazione artistica si sbraccia a ricordare che i fatti narrati appartengono alla cronaca, probabilmente sottintende che la verità è più apprezzabile o più forte della finzione, e quindi occorre dedicare una particolare attenzione al valore aggiunto che viene messo in campo nell’interpretazione dei fatti medesimi

Ipotesi di svolgimento: un regista di western non avrebbe nemmeno considerato il progetto, non solo per la latitanza di canyon, praterie, cavalli, ma anche di un materiale umano da trasformare in banda; un produttore sensibile alle tematiche giovanili si sarebbe preoccupato dell’approfondimento dei caratteri, con riferimento sia al vissuto privato che alle dinamiche di gruppo; uno sceneggiatore attento alla denuncia sociale avrebbe illustrato cosa si nasconde dietro il glamour dei magazine e il vissuto dei grandi marchi, imbastendo un sontuoso interscambio fra persone e oggetti mediante la cosificazione delle prime e la personificazione dei secondi; un autore di thriller avrebbe girato intorno al tema, per poi abbandonarlo a causa della totale assenza di ostacoli e di effrazioni, visto che tutti entrano ed escono da case miliardarie con la disinvoltura con cui si frequenta una birreria al Testaccio; un’icona della cinematografia asiatica avrebbe tagliato la testa a tutti, con rutilare di katane e di piedi in volo, riflettendo sulla imbastardita qualità del desiderio occidentale; la Disney, infine, avrebbe potuto nostalgicamente abboccare, grazie al continuo profilarsi di sagome in controluce, tipo Mary Poppins e compagni sui tetti, e pazienza per la sparizione dell’ombrello, il borsone rimane.

Svolgimento effettivo: in nome di quell’assenza di valutazione che oggi sembra opporsi ad ogni vetusto moralismo (che in realtà nient’altro è che il giudizio sul rispetto di un qualsivoglia tipo di regole) il film si limita a registrare senza filtri tre generi di situazioni. La più ripetuta riguarda le numerosissime e sempre uguali incursioni nelle case dei vip, colme come i forzieri di Alì Babà di chincaglierie di tutti i tipi, ma note, riconoscibili, costosissime e dunque irresistibili per definizione; il secondo tipo si riferisce ai siparietti al contorno, che si aprono per accenni vuoi su briciole di dissennatezza domestica (dove genitori uguali ai figli non vedono, non sentono, e cadono dal pero a ogni piè sospinto) vuoi sugli esiti dei latrocini, con fumate, bevute e pippate di scontata ordinanza. La terza riguarda le incursioni dei media, sotto forma di interviste dirette, di finti spezzoni di telegiornale, e di poliziotti che aprono e chiudono porte e portoni come nei film anni ’50 a significare aspettate e vedrete, e poi the end, potete abbandonare le poltrone. Che cosa rimane tra le righe? Un cicaleccio confuso di scarna gergalità- cazzo, figo – di marchi e di cognomi abusati – Chanel, Louboutin, Paris Hilton… – e l’appiattimento dell’essere in funzione di un apparire compulsivo, anche maldestramente reso,come ben sa chi butti una sola distratta occhiata su qualsiasi social network. Che poi l’interesse si sposti sugli attori, a enfatizzare la trasformazione di Emma Watson dall’Hermione di Harry Potter alla teenager del film, non appartiene alla cinematografia, ma ai rotocalchi.

L’autrice:se si mette tra parentesi Il giardino delle vergini suicide per la giovane età e per l’insuperabile preponderanza del romanzo, Sofia Coppola ha finora diretto due tipologie di film. Il magnifico Lost in Translation appartiene, con grande originalità, alle pellicole di psico-atmosfera, così come Somewhere seppur in tono flaccido e con una ben più sfrangiata adesione personale. Mentre Marie Antoinette è una formula programmata a tavolino, squilibrata tra la prima parte e la seconda, ma di gioiosa trasgressione visiva ed auditiva, con grande enfasi proprio sulle “cose”, per il tripudio degli occhi e delle orecchie. Quest’ultimo titolo, invece, appare non solo stanco – e noiosissimo – fin da subito, ma estroflette i caratteri e i contesti in pochi accenni scontati, trasformando anche il fulgore di Versailles in un confuso accumulo per robivecchi, con una colonna sonora che cerca di imporsi senza riuscirci. Bling ring finisce così per assomigliare ad un lugubre catalogo modaiolo di vendite per corrispondenza, che procede per accumuli di offerte tramite manichini, sulla scorta di un’osservazione dei costumi affidata all’autoesplicazione di luoghi comuni consunti. Il copione è povero, il ritmo latita, la fotografia è insulsa, la storia non decolla sulla base di una presunta distanza oggettiva che, cinematograficamente, si traduce in mancanza di ispirazione e di rielaborazione.

Conclusione: va tuttavia rilevato che se una fama precocemente meritata può diventare nel tempo una cattiva consigliera artistica, può darsi viceversa che si dimostri una stratega del botteghino. La sala era infatti invasa da sciami mai visti di quattordicenni, al punto da far pensare di aver sbagliato proiezione. Nella speranza che non si trattasse di apprendisti che si portavano avanti con lo studio, significa che l’elementarità banale – purché griffata – paga, chiudendo forse il loop fra il modesto affresco di costume e i futuri possibili adepti dell’affresco medesimo.

BLING RING di Sofia Coppola, Usa Gran Bretagna Giappone Francia Germania durata 90 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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