Libri

TERZO BOUQUET

IO SONO JONATHAN SCRIVENER di Claude Houghton , Castelvecchi 2014 , 277 pagine , 18 , 50 euro

Poteva essere un giallo ingegnoso intorno al classico mistero della camera chiusa , oppure un noir in cui i ruoli di vittima , sicario e mandante si confondono , oppure ancora la volgarizzazione di un dramma beckettiano intorno alla condizione dell’attesa , fra intenzione e inazione ,  o , ancora , il puzzle di un autore demiurgo e di un protagonista tanto più invasivo quanto più lontano , in anticipo sulla scoperta bio-psicologica dei neuroni -specchio . E si potrebbe continuare con le analogie e con i paroloni per un libro affascinante e singolare che sfugge ad una classificazione e che nel contempo accumula tante e diverse  suggestioni letterarie . L’ambientazione è così inglese da rappresentare il distillato di ogni immaginario continentale intorno al rito del te delle cinque , e l’epoca sembra collocarsi nella Londra fra le due guerre , ma tutto rimane avvolto in una nebbia di pulviscolare precisione , sicchè solo alla fine si riuscirà a mettere a fuoco il quadro complessivo . Introdotto da una bella prefazione di Henry Miller , il libro di Houghton – 1889 , 1961 – riconcilia il lettore con gli elementi del romanzo , che vanno dall’architettura del racconto ad incastro alla suspense di un continuo , possibile disvelamento , mentre i personaggi -paradigma desiderano in modo totalizzante , oppure rifiutano per superbia quello che non viene loro comunque offerto , interagendo sullo sfondo di un interrogativo persecutorio , che è al tempo stesso speranza , desolazione , fallimento . La prosa è semplice , consequenziale , aforismatica , la conduzione pervasiva , la riflessione onnipresente , ma mai a discapito dell’intrattenimento . Ci si immedesima , ci si interroga , si impara , si usa il microscopio e il telescopio , si sottolinea e non si dimentica , stupiti che un romanzo pubblicato nel 1930 sia non solo attualissimo , ma addirittura profetico e nel contempo così classico da parafrasare le unità di luogo , di tempo e di azione : un trentanovenne risponde ad un’inserzione , viene assunto senza nemmeno essere visto , diventa il segretario di un uomo in viaggio che lo porta ad interagire con altri suoi cinque sodali , amici , conoscenti , imitatori , succubi…..E’ interessante notare come , nel bailamme delle pubblicazioni e autopubblicazioni odierne , si ricorra con successo ad autori del secolo scorso , che hanno capacità seduttive mediamente superiori ai loro attuali discendenti , forse perchè il mestiere di scrittore era ancora una vocazione , e non una disoccupazione da riempire , inseguendo , se non il colpaccio da rock star , almeno la paga per il lesso .

UNO CHALET TUTTO PER ME di Elizabeth von Arnim , Bollati Boringhieri 2014 , 208 pagine , 9 euro

Elisabeth von Arnim ha il dono di una scrittura limpida , pungente , affettuosa e taglientemente ironica , con la rara capacità di arrivare agli animi , alla natura e ai costumi sociali in pochi tratti diretti , sia che la trama risulti composita , sia che viceversa lasci il posto ai pensieri di una persona sola . Uno chalet tutto per me appartiene a questo secondo filone insieme a Elisabeth a Rugen , Un’estate da sola , La moglie del pastore . Scritto nell’isolamento di uno chalet svizzero in forma di diario , illustra il lento riemergere di una donna dai traumi della prima guerra mondiale . Ed è come una lunghissima sorsata di acqua fresca , da cui non si può smettere di attingere sino alla fine . Superiore a Willa Cather e anche alla ben più conosciuta ma diseguale Edith Wharton , Elisabeth è infatti una intelligente , grande scrittrice , che annovera , nella sua lunga produzione , anche romanzi più articolati come Un incantevole aprile , La fattoria dei gelsomini  e – soprattutto -Mrs Skeffington , cui sono debitrici anche scrittrici di appartata grazia quali Barbara Pym e Anita Brookner . Sono passati più di settanta anni dalla sua morte , ed è incredibile come la sua arte faccia sembrare ogni cosa descritta come appena accaduta . Grazie a Bollati Boringhieri , ogni traduzione è sempre una conferma . Inoltre è l’unica autrice che sappia descrivere una condizione temuta  eppure indispensabile come la solitudine , con una finezza e una varietà dense di tutte le possibili sfumature vitali .

CHE DIO CI PERDONI di A . M . Homes , Feltrinelli 2013 , 496 pagine  , 16 , 15 euro

Harold Silver è un discendente dello Pnin di Nabokov , di vari personaggi di Bellow  ( da Herzog a Humboldt ) e del Panofsky di Mordecay Richler  ( La versione di Barney  ) . Insegna storia contemporanea – il suo unico argomento è il presidente Nixon – ed è afflitto da un rapporto  con la vita che tende all’ingenuità . Cade infatti  vittima delle più improbabili contorsioni esistenziali , secondo jingle tragico – umoristici che danno a tutto il libro un’impronta grottesca , senza che la veridicità del reale risulti alterata nella sua essenza . Ma la novità è un’altra , perchè l’autrice è una donna che – stranamente – scrive benissimo “da uomo”, recuperando il tono umoristico – disperato – dotto di tanta letteratura americana di matrice ebraico -rothiana , ma imprimendo nel contempo all’intero romanzo una sua personalissima atmosfera . La storia incomincia con due doppi avvitamenti alla Jacovitti , che da soli costituirebbero l’ossatura di parecchi racconti , e che qui invece sono solo il prologo di innumeri situazioni surreali sostenute da un’invidiabile capacità di osservazione e di sintesi . Capacità che dicono tutto non tanto o non solo sulla complessità dello stare al mondo , quanto sartrianamente sulle continue scelte implicate dai rapporti , in cui ognuno costruisce il proprio inferno , collaborando alacremente anche alla realizzazione di quello degli altri . Dotata di un’inventiva muscolare alla Lansdale e capace di sarcasmi sia crudeli che densi di implicita pietas , A . M . Homes è un miracolo di scrittrice sotto il profilo  dell’invenzione , della lingua , dello stile e della costruzione strutturale , tra tagli netti che donano fluidità alla storia , dialoghi apodittici che riassumono mondi e caratteri in due battute , realismi dettagliatissimi e cortocircuiti di pensiero che sfiorano la poesia anche quando  parla di carta igienica . Se ne emerge ammirati e divertiti , con la cassetta degli attrezzi ulteriormente arricchita non solo di illuminazioni teoriche , ma anche di istruzioni per l’uso della vita , à la Perec .

VASO DI FIORI  – 1937 – di Fortunato Depero

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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