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MI CHIAMO LUCY BARTON

Intimismo  è il sostantivo che sinteticamente viene in mente quando si chiude questo  libro . Solo che  è un sostantivo criticamente ambivalente , contemplando un giudizio anche negativo , mentre storicamente non definisce tanto una corrente , quanto un atteggiamento   nei confronti della realtà : apparentemente dimesso  , interiormente assorto nel cogliere  i riflessi del mondo circostante  attraverso il filtro dei moti  dell’animo , improntati all’attimo antiretorico del quotidiano ;  oppure al pregresso storico in termini di nostalgie autobiografiche , disseminate lungo i flash back della memoria . Con ampio , inevitabile ricorso al mondo degli affetti parentali e degli ambienti domestici . Sempre che non si trasformi nella maniera , ormai diffusissima , dello ” scrivi come senti ” , ignorando che proprio la semplicità dell’assunto cela trappole dappertutto , perchè esige una sensibilità originale ed una resa stilistica di particolare , raffinata  re-invenzione , in cui la singolarità sublima l’io per raggiungere afflati universalmente riconoscibili o condivisibili . Magari attraverso quei cortocircuiti che spesso derivano la loro efficacia più dalle ellissi della poesia che dalle circostanzialità della prosa .

Benchè frequentato in pittura e in letteratura da molti maschi , l’intimismo è di matrice diffusamente  femminile e percorre la vena di molte autrici , non ultima Elizabeth Strout . Che , sotto questo profilo , appare indiscussa signora di un unico libro , quell’Olive Kitteridge che suddivide in racconti un romanzo  strutturato di striscio  intorno ad  una  testimone  disincantata , conflittuale , ma a sua volta sofferente rispetto alle  delusioni generate dagli umani rapporti di una piccola comunità del Maine . Colta e raccolta  intorno ai  momenti topici dell’amore , del tradimento , dell’abbandono , della malattia e della morte ( da cui anche la  bella mini-serie televisiva omonima  ) . E se con I ragazzi Burgess , di impianto più classico , la Strout aveva fatto un passo indietro , pur mantenendo con maggiore discontinuità e minor fiato la propria ispirazione , con Lucy Burton esaspera la scomposizione  in soggettiva del raccontare e   passa dalla circolarità corale alla linearità di un confronto  tra due soli  personaggi , delimitati da un ambiente chiuso .

Una trentenne , ricoverata in ospedale per una malattia che comporta una lunga degenza ,  viene inaspettatamente raggiunta da una madre con cui non ha più rapporti da anni . E la circostanza innesca il pretesto per un riepilogo esistenziale , sospeso  tra il rancore e l’affetto , la pena e la speranza . Domina il senso tutto  americano di una provincialità come immedicabile soggezione , puntualmente ricordata  dall’immagine del grattacielo Chrysler che spicca argenteo nella quiete notturna  . Le pause , gli scarni dialoghi e gli echi che ne derivano devastano o confortano di volta in volta la protagonista , inducendola a cercare nel passato  il senso del presente e l’impostazione del futuro , con la strenua volontà di essere diversamente interprete della propria vita , in particolare nei confronti delle figlie bambine . Con un’ empatica , commossa spietatezza . La prosa ronza fintamente umile e frammentata ,  prona ad un déjà vu che permea tanti scritti di genere , trovando in alcuni scarti ingenui la propria cifra ma anche la propria manieristica ripetizione , punteggiata da oh di stupore che ad un italiano ricordano gli infantilismi di Povia . Così come un italiano , benchè letterariamente aduso , stenta a riconoscersi in legami recisi fin dall’adolescenza , secondo una negazione della famiglia che si staglia come un rimorso  o una mancanza trasformata in inguaribile anelito .

La cultura statunitense , molto più migratoria ed emancipativa di quella europea ,  traduce i dilemmi freudiani in fatti espliciti e in ragionieristiche chiusure di conti : le fattorie contrastano la città , i matrimoni surrogano gli abbandoni adolescenziali , i non detti trattenuti ampliano parole mai pronunciate  , ogni implicito affiora di volta in volta a drammatizzare una  prosaicità tesa al recupero tardivo e catartico di un grumo originario interrotto . Tutto già percorso e già sentito , benchè espresso talvolta  con grazia , talaltra con qualche ridondanza , senza che i pensieri sfocino in quelle immagini atte a tradurre in seduzione letteraria quanto già si intuisce per ragione ed esperienza . Rimane l’intelligenza di un divagare significante perchè colma con i discorsi sulle vite degli altri quanto non si riesce a dire delle proprie , che è l’invenzione migliore del libro . Letto con stanca indulgenza , ripensato con qualche apprezzamento successivo in più , ma sostanzialmente pervaso da un  assioma  (  vero o banale ) che la protagonista desume dal solito corso di scrittura creativa , illustrando  indirettamente anche la propria : “..ciascuno ha soltanto una storia . Scriverete la vostra unica storia in modi diversi . Ma tanto ne avete una sola “. Può darsi , ma in questo caso o la storia o la scrittura  o tutte  e due sono deludenti per una non esordiente . Magari a causa di una  personale durezza di cuore o d’orecchio . L’organo è a scelta , tanto l’impressione o il giudizio non cambiano : sembra di abitare in una copia immatura di qualche frammento della Munro .

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Il libro

MI CHIAMO LUCY BARTON di Elizabeth Strout , Einaudi 2016 , 158 pagine , 17,50 euro

L’autore

Elizabeth Strout ( Portland , 1956 )  si laurea in legge al Syracuse University College of Law , e fa esperienza durante un breve praticantato ; intanto pubblica i suoi primi racconti sulla rivista New Letters . Raggiunta New York ,  insegna e continua a scrivere , impiegando sette anni per il suo primo romanzo Amy e Isabelle – 1998 . Seguono ( tradotti in italiano ) : Resta con me  – 2006 ; I ragazzi Burgess – 2013  .  Ma è nel 2009 , con Olive Kitteridge  , che raggiunge la fama internazionale , anche in virtù della meritata attribuzione del premio Pulitzer . Schiva e appartata vive tra il Maine e New York insieme al marito e alla figlia , alternando le docenze  universitarie alla scrittura .

La citazione

“…Mai difendere quello che ha scritto . La sua è una storia d’amore e lei lo sa . E’ la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra . E’ la storia di una moglie che è rimasta con lui , perchè lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione , e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti degli altri , e nemmeno lo sa ,  nemmeno sa che sta facendo . E’ la storia di una madre che ama sua figlia . In modo imperfetto . Perchè amiamo tutti in modo imperfetto . Ma se mentre scrive questa storia sentirà che sta proteggendo qualcuno , si ricordi : c’è qualcosa che non va “.

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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